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e allo stesso tempo per «comprendere il passato mediante il presente». Lo storico è come l’orco delle favole, sempre alla ricerca di nuove prede, per lui le prede sono i documenti, di cui non è mai sazio. Documenti che, intrecciati sempre tra loro, consentono al ricercatore di individuare elementi, dati, fatti da sottoporre a un’incessante analisi critica, onde poter giungere alla ricostruzione degli elementi fondamentali della civiltà di una fase temporale che ci ha preceduti, al fine di comprendere quella in cui viviamo e operiamo, nella piena consapevolezza che ciò che il suo lungo lavoro di analisi può fargli apparire connotato di verità potrà in futuro essere modificato e ribaltato da lui stesso o da altri, indagando su altre fonti e altri documenti.1 Il che implica che la storia, come ebbe ad affermare Lucien Febvre,2 debba essere considerata «come studio condotto scientificamente e non come scienza» in quanto si tratta di una ricerca effettuata sulla base di documenti raccolti con grande pazienza, criticamente valutati e costantemente messi a confronto gli uni con gli altri. In tal senso la storia in tutte le sue varianti e declinazioni è scienza degli uomini, che nel mutare del tempo e dello spazio hanno attribuito al «vero» un valore che si è andato modificando.

      Va anche chiarito che il lavoro dello storico, per quanto accurato esso sia, è un continuo divenire e non termina mai. Lo storico è alla costante ricerca di nuovi documenti e d’inedite interpretazioni di quelli già noti, fonti che devono essere sottoposte a un’incessante analisi critica. Un serio studioso deve, però, avere la piena consapevolezza che, per quanto le sue ricerche saranno accurate, le fonti utilizzate –sia archivistiche, sia letterarie, sia iconografiche, sia cartografiche, sia bibliografiche, sia quelle più attuali delle grandi «banche dati»– saranno molteplici e continuamente tra loro poste a confronto, esisterà sempre la possibilità che altri documenti o altri modi e metodi d’approccio all’analisi potranno in futuro modificare anche sostanzialmente le conclusioni alle quali è giunto con il suo lavoro. Le nuove ricerche non toglieranno valore a quelle che le hanno precedute, ma saranno in grado di fare luce su diversi aspetti, su differenti comportamenti d’individui, gruppi, ceti, istituzioni, arricchendo il livello della conoscenza della collettività civile, dando nuovo peso a strutture ed elementi economici, sociali, politici e culturali dei quali a volte, anche nella memoria collettiva, si è perso il significato e il valore.

      Occorrerebbe ricordare che nel significato originario del termine storia economica il sostantivo è ‘storia’ e l’aggettivo è ‘economica’. Il che comporta che in questo ambito di ricerca bisogna leggere il passato, con tutta la sua complessità e i suoi problemi, muovendo da fatti, eventi, andamenti, congiunture di carattere economico, interpretati alla luce delle teorie che avevano fatto sì che quegli eventi si realizzassero, si potessero controllare o anche indirizzare verso nuovi orizzonti, senza però tralasciare l’esigenza di comprendere perché e in qual modo gli andamenti dell’economia in ogni tempo e in ogni spazio siano stati condizionati da una pluralità di fattori, anche di natura non economica, e in primo luogo dal potere politico e da quel sistema di valori che connota ogni civiltà in una data fase temporale e in un determinato contesto spaziale. È anche indispensabile che i dati raccolti possano essere inseriti in delle serie quantitative, utili a porre in evidenza le fasi di crescita, di declino e/o di stasi dei fenomeni che vengono sottoposti all’analisi.

      Va anche sottolineato che spesso nell’utilizzazione dei dati quantitativi vi è una distinzione tra gli storici generali e gli storici economici. Per lo storico generale, che tende ad adoperare come categorie principali della sua analisi la politica, le istituzioni e la cultura, i dati strutturali sono essenzialmente uno strumento per contribuire alla ricostruzione degli eventi di una data epoca e per comprendere meglio l’operato delle istituzioni e il determinarsi dei rapporti sociali. Per lo storico economico gli stessi dati strutturali sono la base di partenza imprescindibile per indagare su un determinato sistema economico, sull’andamento e sul determinarsi dei cicli, delle fasi di espansione, regressione, ristagno, sviluppo, sono le variabili storiche da applicare a un modello teorico, onde comprendere la funzionalità dello strumento concettuale della teoria. In tal senso, anche in relazione alle indagini sul Medioevo, non è l’inserimento di dati quantitativi nell’analisi che distingue il lavoro di un medievista puro da quello di uno storico economico del Medioevo, ma il metodo e la finalità dell’indagine.

      Se accettiamo questa sorta di postulato –ma so bene che molti storici generali e forse anche studiosi ufficialmente addetti alla storia economica non condividono la mia ipotesi– la storia economica come disciplina e gli storici economici come ricercatori hanno più stretti rapporti con i teorici dell’economia che con gli storici in senso lato. Anche se va sottolineato che tra economisti e storici economici esistono delle differenze, che si sono andate approfondendo con il tempo e specialmente si sono acuite negli ultimi decenni. Questi divari d’impostazione metodologica hanno portato le metodologie degli storici e degli economisti a divergere: mi riferisco al periodo breve o lungo che viene posto a base dell’analisi; a un certo carattere di ripetibilità, direi di supposta razionalità, che l’economista tende ad attribuire alle sue variabili; all’esigenza propria dello storico economico di dover tenere continuamente presente la variabile istituzionale-sociale.