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       Anton Giulio Barrili

      Il Libro Nero

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066071318

       CAPITOLO I.

       CAPITOLO II.

       CAPITOLO III.

       CAPITOLO IV.

       CAPITOLO V.

       CAPITOLO VI.

       CAPITOLO VII.

       CAPITOLO VIII.

       CAPITOLO IX.

       CAPITOLO X.

       CAPITOLO XI.

       CAPITOLO XII.

       CAPITOLO XIII.

       CAPITOLO XIV.

       CAPITOLO XV.

       CAPITOLO XVI.

       CAPITOLO XVII.

       CAPITOLO XVIII.

       CAPITOLO XIX.

      [pg!1]

      IL LIBRO NERO

       Indice

      Nel quale si racconta di mastro Benedicite, strozziere, e della gran paura che avea.

      Il sole era tramontato in mezzo a certi nuvoloni neri neri che ingombravano l'orizzonte marino, minacciando, dopo una molto bellissima giornata, una notte burrascosa. Gli ultimi riflessi dell'astro, costretti sotto quella cappa di piombo, accendevano come una striscia di fuoco lunghesso il mare, che si vedeva nereggiare in lontananza, di là da parecchi ordini di monti e colline, che sono i contrafforti dell'Apennino ligustico.

      Le giornate, essendo sul finire d'autunno, riuscivano brevi; l'aria, già fresca per la stagione, si raffreddava sempre più per l'accostarsi del temporale e per il calar della notte. E già nascosto nell'ombra, sebbene fosse murato su in alto, era il castello di Roccamàla, severo edifizio tra il monastico e il feudale, siccome era dimostrato da un campanile, vecchio avanzo di chiesa, dimenticato in mezzo a torrioni e mura merlate, le quali avevano da due lati [pg!2] l'abisso, e un largo fosso dagli altri due, dov'era più dolce il pendìo.

      Se la memoria non mi tradisce, questo castello di Roccamàla era stato da principio un convento di frati cirsterciensi, ordine il quale, fondato appena da S. Bernardo, si propagò alla lesta come una nidiata di conigli, e corse in pochi anni a popolare i paesi vicini. In Italia, segnatamente, e' furono come le cavallette d'Egitto. Dappertutto edificarono monasteri, e in parecchi luoghi (poichè allora, a quanto sembra, la novità delle fogge presiedeva eziandio alla prevalenza di questo o di quel sodalizio di frati) si allogarono in que' conventi che altri ordini più non potevano far prosperare, tanto erano andati giù nel concetto delle anime timorate.

      Senonchè, i cisterciensi, o bernardoni, come erano chiamati dalle popolazioni ligustiche dal nome del fondatore, fortunatissimi altrove, nol furono del pari nel loro ricovero di Roccamàla. Nocque loro la fortezza naturale del sito e il comandar che faceva a due ottime strade (ottime, s'intende, per i tempi d'allora); laonde, corsi e ricorsi quei monti da gente strana, Roccamàla fu presa e divenne feudo di un valoroso conte, il quale non aveva altro che la sua spada, ma sapeva con quella tagliarsi dalla pezza la sua parte di tela. E intorno a Roccamàla il conte Ugo si tagliò di siffatta guisa un largo dominio, donde appariva, come tanti suoi pari, avvoltoio appollaiato sulla rupe, pronto a calare, se le discordie altrui gliene porgessero il destro, sulla marinaresca riviera. I frati, messi fuori di sella, dovettero quindi andarsene a dimorare più giù, verso il paesello che dipendeva dalla rocca, ma dove furono sempre a disagio, [pg!3] e intisichirono, come una pianta in luogo uggioso, sebbene il conte Ugo non li molestasse per nulla. Il fiero castellano non badava ad altro che a rafforzare e munire la sua rocca; la quale, pochi anni di poi, per una di quelle contese così facili a nascere tra vicini, sostenne valorosamente l'assedio di uno dei signori Del Carretto, e lo rimandò con Dio, conciato, lui e la sua gente, per il dì delle feste.

      Ma egli non è di questo conte Ugo, capo stipite dei signori di Roccamàla, che io debbo narrar le gesta ai lettori, sebbene talfiata e' dovrà essere ricordato con distesi ragionari. Narro di forse cento trent'anni dopo di lui, quando quel forte legnaggio faceva bella testimonianza di sè in un altro conte Ugo prode e gentil cavaliere, amante delle giostre, delle cacce, delle tenzoni, dei trovadori e de' geniali convegni, per le quali cose era quasi sempre calato il ponte di Roccamàla e risuonavano le spaziosi arcate di festevoli risa e di liete canzoni.

      Gaia gente, allegre mura! Il giovine conte era ricco, potente e bello come un eroe da romanzo, e felice per sovrammercato, come gli eroi da romanzo non sogliono essere.

      Il papa lo aveva benedetto, sul nascere, mandando al conte Ruberto suo padre, per sì fausto evento domestico, un sacco d'indulgenze, che potevano bastare al neonato per tutto il tempo della sua vita, e avanzarne ancora un bel gruzzolo per uso della sua gente di casa.

      Nella sua rocca convenivano d'ogni parte i più fedeli amici che uomo vedesse mai, innamorati dei modi suoi cortesi, liberali e magnifici; ed erano tali per nobiltà di sangue, e per alto valore e prodezze, [pg!4] da poter rinfrescare intorno a lui, nuovo Artù, l'onorata memoria dei cavalieri della Tavola rotonda.

      Egli aveva i più bei falconi d'Europa, che gli erano stati donati da un suo zio materno, gran maestro de' cavalieri di Malta. Della qual cosa era giunta voce perfino al re di Francia, il quale, avvezzo per lo innanzi a ricevere ogni anno da Malta i migliori falconi pellegrini, e non gli parendo più che il gran maestro dell'ordine facesse il debito suo con la usata larghezza, ebbe a tenerne parola co' suoi gentiluomini. E uno di costoro gli rispose: — Sire, j'ai oui dire que le Grand Maistre a un sien neveu, de fort bonne noblesse, qu' il a en grande affection, et c'est lui qui reçoit les plus beaux faucons et les plus gentils que l'on puisse voir. — A cui il re di rimando: — M'est avis que ce jeune homme, puisque il est d'aussi bonne noblesse que vous le dites, vienne chez nous, et nous le ferons

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