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contro l'Imperatore che ha precipitato la monarchia d'Absburgo «nell'obbrobrio» e che ne ha assicurato «lo sprofondamento»; contro i parenti di Spagna, la cui Corte è un «infâme tripot», la cui Regina è una «vieille catin»; contro il Papa, che dice di rispettare come discendente di San Pietro, ma che «come sovrano è infame e merita il disprezzo universale»; contro gli Inglesi e i Russi, che ha portati al cielo quando si è alleata con loro, ma che, non appena la scontentano, diventano «infami, saccheggiatori, egoisti, vili, implacabili e perfidi nemici».

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      L'improvviso mutamento d'opinione e l'alternarsi di atteggiamenti diametralmente opposti non è tanto sintomatico quanto nel caso di Napoleone Bonaparte. Giudica lui solo degno d'esser «ministro della guerra in Italia», perchè lui solo sa trasformare «gl'Italiani in soldati»; dice che «lui solo, solo, SOLO in tutta Europa sa governare, maneggiare, dirigere i popoli e gli affari», e gli vorrebbe quindi affidare il proprio regno durante un anno affinchè glielo restauri, e gli professa «vera stima» e «profonda ammirazione» e «sincera venerazione», e se il grand'uomo morisse, vorrebbe che lo riducessero in polvere, «per darne una cartina a ciascun sovrano e due a ciascuno dei loro ministri, e allora le cose andrebbero meglio»; ma poi, anzi contemporaneamente, egli è «il bastardo incestuoso, il mitragliatore, l'avvelenatore di Giaffa, quello dei prigionieri infermi precipitati nel Po, mussulmano in Egitto, cattolico a Parigi, scellerato dovunque....».

       L'accusa che gli rivolge con maggiore compiacimento è d'essere un «parvenu», un imperatore «di nuova fabbrica»; ma il peggio, ancora, è che, giudicandolo tale, gli si umilia, lei, la figlia di Maria Teresa! Quante volte ha dichiarato preferibile «perire piuttosto che disonorarsi», quante volte ha promesso al suo confidente ed a sè stessa di non voler «mendicare misericordia da nessuno»? Orbene: ella la mèndica dall'«arci-Imperatore», da «Bonaparte I»; gli scrive una lettera d'umile implorazione, si espone a riceverne una risposta ironica e minacciosa, leggendo la quale — «io, la figlia di Maria Teresa!» — per poco non crepa di rabbia. Ma la rabbia, l'umiliazione, la mortificazione non le impediscono di tornare a piatire: «L'Imperatore è tanto grande! Ha tanta gloria che potrebbe acquistarne un'altra, una vera, mostrandosi generoso, lasciandoci tranquilli a casa nostra, sicuro che mai più» — dopo tre impegni spezzati, e nello stesso punto di infrangere il terzo! — «ci lasceremo sedurre!... Non ho più fiducia in nessuno, e mi sottometterei al tiranno, se mi trattasse bene....» Ha giurato che «mai, mai, MAI» consentirà che il Re di Napoli si riduca alla condizione di tributario o prefetto del proprio regno: e, meno di tre mesi dopo, accatta per suo figlio il posto «di re o di prefetto....» E nel chiedere che l'ambasciatore interponga i suoi buoni ufficii per ottenerle questa elemosina dal padrone del mondo, avvilendosi fino ad offrirglisi in ostaggio, dimentica d'averlo chiamato «bestia feroce, animale ruggente, mostro morale, vendicativo, furente....»

      In verità, il «piccolo Côrso» non dovrebbe fare altro se non risponderle come rispondeva a lui stesso il granatiere della leggenda: «Après vous, s'il en reste!...»

       28 maggio 1916.

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      Pietro Colletta, nel terzo Libro della sua classica Storia, narrando l'accortissima ritirata strategica compiuta nel 1798 da quella parte dell'esercito napolitano che obbediva al generale Damas, giudicò che la salvezza della legione fosse «frutto del dimostrato valore de' soldati e del duce. I quali andarono lodati di que' fatti; ma poche virtù fra molte sventure si cancellano presto dalla memoria degli uomini».

      Più d'un secolo doveva passare prima che la diretta testimonianza dello stesso duce rinverdisse quegli allori, e le Memorie del conte di Damas, rimaste inedite nell'archivio della nobile famiglia, dovevano finire di pubblicarsi in sul divampare d'una nuova serie di guerre più sanguinose e tremende di quelle alle quali l'autore partecipò. Ma appunto per questa coincidenza il libro, che in altri tempi avrebbe interessato soltanto pochi studiosi, si raccomanda oggi ad un maggior numero di lettori ed ha pagine che parrebbero scritte per noi.

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      Ruggero di Damas, discendente da una famiglia di prodi, ebbe da fanciullo una straordinaria vocazione per il mestiere dei suoi maggiori, «il più bel mestiere del mondo», ed entrò giovanetto nel Reggimento del Re; ma, per la pace che allora regnava nella sua patria, non potendo altrimenti sfogare l'umor bellicoso se non nei duelli, una bella mattina, letto un giornale che dava notizie della guerra combattuta in quell'anno 1787 tra Russi e Turchi, restò «asfissiato» dalla lettura, e senza porre tempo in mezzo, senza chieder licenza nè a parenti nè a superiori, partì per la Russia con pochi denari ottenuti in prestito e andò ad offrire la sua spada al principe Potemkine. Fu accettato, ed ebbe anche la fortuna d'incontrarsi col principe di Ligne, che conosceva da Parigi e che si trovava presso i Moscoviti come rappresentante dell'esercito austriaco loro alleato. Il volontario ed il generale si misero a studiare insieme la lingua russa, «ritenendo le parole baionetta e vittoria prima che pane e vino», e la vittoria ben presto rimeritò il suo ardentissimo alunno, in un combattimento più navale che terrestre contro il vascello ammiraglio ottomano ancorato sulla foce del Dnieper: la nave fu presa d'assalto dalle scialuppe comandate dal Damas, che ebbe in premio la croce di San Giorgio ed una spada d'oro da Caterina II. Ferito più volte, promosso al comando di reggimenti di cavalleria e di fanteria — aveva soli 23 anni — distintosi negli assedii e nelle espugnazioni, segnatamente ad Ismail, dove si guadagnò una commenda, l'ardito colonnello dimenticò quella guerra per le notizie d'un'altra, non solamente più grossa, ma più importante agli occhi ed all'anima di un Francese: la guerra originata dalla Rivoluzione.

      Bisogna dir subito che, nato e cresciuto nella devozione al suo Re, offeso nelle opinioni, negli affetti e negli interessi dalle persecuzioni alle quali fu fatta segno la sua famiglia, Ruggero di Damas non corse alla frontiera di Francia per combattere con gli eserciti repubblicani contro lo straniero, bensì per combatterli nell'Armée royale, nell'esercito di emigrati capitanato dal Condé e alleato degli stranieri. Non fu dunque, questa volta, la bella guerra: fu la guerra civile, con tutti i suoi orrori — dei quali egli stesso ebbe piena coscienza, se chiamò «strazianti» le cause e i ricordi di quegli avvenimenti, se nessun godimento potè mai provare «che non fosse formato dalle memorie o dalla speranza della Francia, che non provenisse da lei od a lei non mi riportasse», se dichiarò che la sua mano si sarebbe irrigidita prima di dare a stranieri il consiglio di entrare in Francia «senza la certezza che aspirino soltanto ad una pace solida e che nessuna idea di conquista li governi», e se, cercando ovunque una nuova patria e non trovandola in nessun luogo, credendo di poter fuggire la lava dilagante dal vulcano francese via per il mondo, e sentendosi sempre raggiunto da quella, pensò e scrisse un giorno: «I piedi mi bruciano ovunque mi fermo; presto non mi resterà altro rifugio che nel cratere di Francia...».

      Il militare di professione, del resto, non poteva non ammirare l'impeto straordinario e gli sforzi sovrumani dei generali della Repubblica, «l'ardore che conduce alla conquista del mondo»; e se, da legittimista convinto e inconvertibile, egli condannò in Napoleone l'usurpatore del trono di San Luigi, fu compreso anche di tanta meraviglia per le grandi cose compite dal capitano immortale, da esclamare con simpatica ingenuità: «Perchè non è egli Borbone!...»

      Simpatica propriamente riesce la figura di questo singolarissimo campione della causa dei Re, il quale non si lascia intanto accecare dalla fede monarchica, ma critica lo stesso Re suo, pure servendolo, e, pur combattendo la Repubblica, domanda a sè stesso, considerata la nullità dei monarchi del suo tempo: «Perchè mai l'Europa dipende da cotesta genie? I regnanti attuali disgusterebbero per tutta la vita del principio

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