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e che, sopraffatta in questo estremo rifugio, getterà con le proprie mani i suoi sette figli in mare e si precipiterà da ultimo dietro di loro, le parole sono belle, ma i fatti non le confermano. Nella sconfitta si smarrisce, si avvilisce, si prostra: dopo la pace del 1796 dichiara che le grandezze non le importano più, che ha perduto tutte le sue illusioni, che vede le cose «con gli occhi della verità», che aspetta di finire i suoi giorni «non solo senza pena, ma con una specie di godimento», e protesta e giura che non intende più «impacciarsi di nulla»: parole, parole, e ancora parole: appena stima giunto il momento della rivincita, fa il colpo di testa del 1798 — salvo, dopo la catastrofe, a gemere, a lagrimare, a dichiarare che la sua «scena è finita», che non chiede altro se non di ridursi a Linz, a Graz od a Presburgo, «sia pure in Valacchia», dove si contenterà di «pane e cipolle», maledicendo il «falso eroismo» che l'ha spinta alla perdizione: ancora parole, ancora menzogne; perchè, insieme con queste espressioni del pentimento, si alternano quelle del furore impotente, dell'odio impenitente, del delirio isterico: vengano, esclama, gli stranieri: «quali che siano, le forze potrebbero scendere in Puglia, sciabolare, avanzarsi. Non potranno far male se non ai possidenti: la terra già non potranno distruggerla». Ma se anche la terra potesse andarne distrutta, ella non esiterebbe a dar l'ordine: «la stessa peste è meno temibile che la Repubblica stabilita ed afforzata in Napoli.... Un massacro generale non mi farebbe la minima pena.... Ve ne prego, in nome del Re e mio: se mai gli Austriaci o i Russi scendessero dalla parte di Roma a Napoli, niente accordo, niente convenzione, niente tregua, niente perdono....» E queste, ora, non sono più sole parole: queste espressioni della ferocia, sì, ricevono piena conferma dagli atti, quando la capitolazione dei Repubblicani, offerta e sottoscritta dal luogotenente del Re, firmata e garantita dai rappresentanti di tre grandi potenze europee, sarà da lei lacerata e la «scellerata Repubblica tricolore» andrà per suo ordine sommersa nel sangue....

      Ma ella non crede d'aver commesso nulla di male; se mai, soffre «mortalmente» delle violenze e della severità: il suo cuore «ne geme». Prima ancora di lordarsi le mani, dichiara preferibile «esser vittima, piuttosto che farne»; dopo l'immane tragedia, continua a protestare che la sua «morale» le consiglia di anteporre «l'esser vittima allo scatenare un flagello», e che sarebbe farle gran torto giudicarla «arrabbiata energumena». Non crede possibile la salvezza, ha detto, se non «con la forca e il carnefice a fianco e le orecchie turate, col cuore indurito e le leggi stracciate»; e quando ha eseguito puntualmente il programma, vanta la propria «purezza», esalta la propria «bontà», si duole che «la bontà non è la virtù occorrente alla conservazione dei troni», benedice Dio d'averla fatta giungere alla fine della carriera, perchè altrimenti si sarebbe «guastata», sarebbe divenuta «despota» e «scellerata....» Lei ed i suoi sono «gente onesta: questo e certissimo»; gente che non comprende nè ammette «se non i procedimenti della politica onesta e retta dei buoni tempi antichi»: lo dichiara nel 1803 al marchese di Gallo dandogli «parola d'onore», la sua parola «sacra», che resterà neutrale se la Francia le accorderà la pace — salvo a chiamare, di nascosto, i Russi e gl'Inglesi; salvo a porre il suo ambasciatore e confidente nella necessità di dimettersi quando vedrà che la Regina gli ha giurato il falso. Ella che prende il servitore ed amico a testimonio della propria lealtà, non sa che costui bollerà un giorno la «leggerezza» e l'«inconseguenza» di lei: eufemismi ai quali il diplomatico e suddito ricorre per non poter dire «tradimento» e «viltà».

       Indice

      Si potrà sostenere, almeno, che questa impudenza è incosciente come forse è incosciente l'impudicizia? Neanche. Molte cose, troppe cose mancano a Maria Carolina, fuorchè l'intelligenza. La sua immaginazione «fermenta», ella «sente» tutto, «prevede» tutto; vive molto «con sè stessa» ed è capace di esaminarsi «senza onta nè repugnanza». Lampi di verità, allora, la abbagliano: «Vorrei punire il delitto e perdonare gli individui; ma, come tutti i paurosi e codardi, noi crediamo che la crudeltà premunisca, e quella che esercitiamo, da cui repugnano gli stessi giudici che vi sono costretti, finisce con l'alienarci i pochi cuori rimasti affezionati». Paura e codardia: ella stessa pronunzia la sentenza tremenda: ma conoscersi, avere coscienza dei proprii vizii, non è il primo, il più gran passo sulla via dell'emenda? Sì, quando la passione non è più forte; e le passioni della Regina sono tutte più forti: l'orgoglio e la superbia prevalgono, il bisogno della vendetta è irresistibile, l'appetito del potere, la sete del dominio, la voluttà dell'intrigo, la vanità regale, il fanatismo feudale, l'odio contro la libertà dissipano i buoni propositi, i consigli della prudenza, le velleità di rinunzia.

      Dieci, cento, mille volte, nella previsione delle catastrofi, in mezzo alle rovine, assicura che tutto è finito per lei, che un convento l'aspetta, che senza la religione si darebbe la morte, che «aborre e detesta» il suo mestiere di Regina esercitato malamente, che vuole rinunziare a quel «cane di mestiere», che intende d'ora innanzi vivere da privata compiendo «gli atti di virtù di cui sono capace», che ha bisogno di farsi «dimenticare», che invidia chi «zappa la terra», che non chiede altro se non «una pensione, un giardino, qualche libro, i pennelli, le matite, un pianoforte», per vivere meditando e componendo le sue memorie, e che farà incidere sul portone della sua casa: «Qui non si parla nè di monarchi, nè dì governi, nè di politica, e neanche delle notizie delle gazzette»; ma tutte le volte, ed ogni volta più ostinatamente, riprende, vuole riprendere, muove cielo e terra per riprendere il suo posto, e giura che sosterrà la sua parte «finchè ci sarà olio nella lampada», che lotterà «finchè avrò una goccia di sangue nelle vene», che compirà il suo dovere «fino alla tomba»!

      Ella stessa dà la chiave di questa continua e stridente contraddizione. «Se fossi soltanto privata cittadina, mi piegherei facilmente.... ma Regina!... Parlerò, e il mondo intero mi restituirà la sua stima. Sono la figlia di Maria Teresa!...» Il male è che, essendo figlia di Maria Teresa, volendo levarsi all'altezza della madre, non le tocca i ginocchi. I suoi disegni politici sono un arruffio, un guazzabuglio di assurdità. Arriva ad avere una singolare visione: l'Italia fiorente, rifiorente, affidata ai posteri uniti e concordi in modo da rendere impossibile che «la bella contrada» sia soggiogata mai più: ma sono idee «inutili», riconosce, che non potranno effettuarsi «se non quando la nostra esistenza sarà dimenticata». Di tradurre in realtà la visione, di fare almeno qualche tentativo, di scernere se non altro la via per la quale ci si potrà arrivare, ella non possiede la capacità. Si contenta di pensare che se Gustavo di Svezia o Giuseppe II vivessero ancora, direbbe loro: «Osate, affezionatevi l'esercito, i baroni ricchi e potenti, lanciate ai popoli nobili manifesti, parlate il linguaggio dell'intelligenza, dell'amor proprio, guadagnatevi i cuori e procurate con ogni mezzo di divenire Re d'Italia....»; ma quei sovrani sono morti e sepolti, e non avendo «nè l'energia, nè la potenza, nè il carattere, nè la perseveranza, nè i mezzi loro, bisogna piegare sotto il giogo....» L'amore di sè soffre, assicura — e non è difficile crederla! — «nel fare questa confessione che mi è costata molte lagrime»; ma la sincerità non ritorna, come non tornano i lampi della verità; torna invece la presunzione, ricominciano le smanie, le manie, le insanie, l'impossibilità di accettare le lezioni della vita, di sottostare alle leggi della realtà.

      Da Palermo, dove si è rifugiata, giudica preferibile «entrare in un monastero piuttosto che vedermi insultata nei miei Stati»; ma poi l'idea di vivere da semplice privata in Germania le riesce intollerabile «per punto d'onore»; ed a Vienna, dove si ritrova «Regina di nome e cittadina di fatto», dove la resistenza alla Francia non è ostinata quanto ella vorrebbe, dove i parenti e la figlia non la trattano come pretende esser trattata, a Vienna rigurgitante di generali «da sputarci sopra», le è impossibile vivere; sennonchè, quando torna a Napoli e trova che le cose vanno ancora peggio di prima, riprende a dichiarare che preferirebbe «zappare la terra al mio paese, piuttosto che vivere qui....» Non si accorge di portare con sè, dovunque, le ragioni dello scontento. Si sdegna contro l'ambasciatore francese Alquier che la giudica affetta da «demenza convulsiva», ma ella stessa non confessa che si sente «ammalata di rabbia», in «uno stato violento», e che teme di morire — come infatti morrà, nove anni dopo — «d'un colpo apoplettico»? I freni morali non funzionano in lei: scatta al minimo impulso, avventa giudizii spaventevoli

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