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a narrare l’ultima sua pazzia, la quale pur troppo non fa parer bugiardo il proverbio volgare «che la più dura a rodere è sempre la coda».

      Uscito dunque mezzo balordo e trasognato dalla cantina del povero canonico, trovò la città vinta e soggetta del tutto, e le chiese, i palagi, le case, gli sventurati cittadini, le loro robe, tutto insomma in balìa, non dirò dell’esercito, che questo nome suppone Capi che comandino, e soldati che obbediscano, ma di quella masnada d’assassini senza legge, senza fede, senza discrezione, e senza misericordia.

      Clemente VII dall’alto di castel S. Angelo ove era chiuso poteva scorgere gl’incendj serpeggiare per la città, udir gli urli, i pianti, i lamenti di quelli che venivan tormentati onde scoprissero i tesori nascosti, le grida forsennate, le risa feroci, lo sgavazzare sfrenato dei vincitori.

      Per le strade di Roma si trovava qua una casa che ardeva, là un’altra consumata di fresco dalle fiamme divenuta uno scheletro informe ed annerito. Sulle cime de’ muri rimasti in piedi vedevi star in bilico travi ancor fumanti, disordinate e sporgenti. Sotto monti di rottami, di calcinacci, di tavole e di masserizie infrante ed abbrustolite giacevan cadaveri schiacciati, de’ quali molti perduta ogni umana sembianza mostravan fuori delle rovine o braccio, o piede, o capo, tutto poi intriso di sangue, sozzo e contaminato d’ogni bruttura.

      Più lungi cadeva con fragore svelto da’ gangheri un portone d’un palazzo: la folla dei predatori si scagliava nell’interno urlando: in un momento dalle cantine alle soffitte tutto s’empieva di que’ ladroni; dalle finestre sconficcate, piovevano in istrada gettati alla rinfusa, cofani, sedie, tavole, quadri, vasi, bronzi, coltri di seta, suppellettili d’ogni genere: fra quelli che aspettavano il bottino nella via fu visto taluno rimanere storpiato, o malconcio da qualche pezzo di mobile che all’impensata gli rovinava addosso, altri contender furibondi la medesima preda, sguainar le spade, ferirsi, poi sopraggiunger una nuova frotta che la strappava loro di mano e fuggiva con essa. Drappi, vesti di gran valore si fermavano appiccate ai cornicioni, alle inferriate; parte vi rimanevan neglette per l’abbondanza della preda, parte si facevan cadere colle punte delle partigiane e delle picche. Ad ora ad ora scoppiava un urlo generale più forte; tutti i visi si volgevano, tutte le bocche s’aprivano.—Dov’è. Che è.—Guarda là, là, lassù...—tutti guardavano in alto: ad una finestra v’era o ritta, o ginocchioni, o spenzolata mezza fuori qualche vecchia, qualche matrona, pallida, abbandonata come uno straccio, o domandava pietà o cacciava strida: la turba la voleva tosto—Giù, giù... a noi—venga. Le si dava l’andare, veniva a terra tra le risa e gli evviva, e rimaneva fracassata sul lastrico, o fermata in aria sulla punta delle ronche. Quando tutto era devastato s’appiccava il fuoco, onde se v’eran padroni nascosti dovessero sbucar fuori.

      Trovati alle volte senza un tal mezzo nei nascondigli, su pei cammini, nelle cantine, nelle fogne, pe’ cessi, strappati di là a forza, percossi, bistrattati, rivedevano la luce del sole, e stavano come insensati e immelensiti all’aspetto di que’ visi infocati dal furore, dall’ubriachezza, dalla gioia di potere sgozzare, distruggere, stuprare; alla vista di quei pugnali che splendevano loro ad ogni tratto sugli occhi, delle corde, de’ ferri roventi preparati per istraziarli, delle fanciulle oltraggiate, poi derise, delle donne, o vecchie o brutte che fossero, fatte tombolar per le scale o morire sotto il bastone, dei giovanetti ridotti a tali vituperii che gli sventurati parenti si dolevano di vederli vivi.

      Nelle chiese le immagini de’ santi rovesciate od infrante; le pitture, le tavole degli altari lacerate od imbrattate; fatti in pezzi i vasi e gli arredi sacri onde partirli più facilmente. Finito il devastare, nè essendovi da far altro danno, divenivano stanza de’ soldati, che vi alloggiavano co’ muli e co’ cavalli, pe’ quali gli altari servivan di mangiatoia.

      I banchi ed i confessionari fatti in pezzi ardevano in un angolo sotto pajuoli e spiedi pieni di carni: in un altro gozzovigliavan giorno e notte a tavole sempre imbandite, soldati, meretrici ebbre avvolte ne’ paramenti sacerdotali, e tra mezzo monache, matrone, fanciulle onorate che lo spavento, le percosse, gli strapazzi, avean fatte uscir di senno, senza saper più nè dove fosser, nè che facessero, stavano a tutte le voglie di quella gente perduta, che intronava loro gli orecchi di schiamazzi, di motteggi, d’orrende bestemmie e di canti osceni.

      S. Giovanni de’ fiorentini, tra l’altre chiese, era nel modo appunto che abbiamo descritto, ridotto un rancio da soldati, una stalla, un postribolo, quando sul far della notte v’entrò Fanfulla uscito allora dalla sua cantina.

      Egli aveva indosso la sola corazza. L’elmo, i bracciali, gli stinieri, i cosciali, legati colle loro corregge in un fascio gli pendevano sulla schiena annodati alla spada che portava in ispalla reggendola colla mano manca. In capo la berretta del canonico: e sotto questa usciva quel suo viso spiritato, tra giulivo e sonnolento pel gran bere che aveva fatto.

      Si fermò sulla porta fischiando e cominciò a guardare lo strano parapiglia che era là entro.

      Sui capi di molti barili rizzati in piedi stavan posate imposte di finestre, assi, battenti di porte, e formavano una tavola lunga quanto la navata della chiesa. La tovaglia mancava all’imbandigione, ma questa povertà era compensata abbondantemente. Calici, pissidi, piatti e vasi d’argento lavorati sottilmente a cesello sul gusto delle opere di Benvenuto Cellini, ampolle, boccali che aveano ornate le mense di cardinali e di prelati, splendevan’ ora tralle mani ruvide ed abbronzate de’ soldati.

      I candellieri degli altari servivano ad illuminare quest’orgia, e perchè forse parean pochi, eran incastrati qua e là ne’ fessi delle tavole pezzi di torcie e candele, quali lunghe, quali corte, alcune rotte e rovesciate in modo che la punta accesa cadendo sulla tavola a poco a poco l’accendeva senza che alcuno se ne curasse. All’uno de’ capi era posto un orcio pieno d’olio a guisa di lucerna, ed una tovaglia d’altare attorcigliata, ardeva per lucignolo, all’altro era un mezzo barile sfondato, ed in esso un mazzo di forse cinquanta candele, le cui fiamme attraendosi a vicenda s’univano e formavano una fiamma sola e grandissima.

      Dall’una e dall’altra parte del desco, seduti sulle panche della chiesa, chi mangiava senza guardare attorno, chi dormiva appoggiate le braccia alla tavola, ed il capo sovr’esse. A quattro, a sei giocavano a dadi o al lanzichinetto, o a germini; e ad ogni poco senza dir che ci è dato, era un gridare, un dirsi ogni villania, un rizzarsi, un prendersi pe’ capelli, un guizzar di pugnali; poi chi era caduto sotto la tavola o ferito o morto vi rimaneva con altri che già v’eran da prima sepolti o nel vino o nel sonno: i compagni seguitavano a giocare. Un pezzo d’omaccio grande e grosso s’era sdraiato boccone per dormire, sulla tavola stessa, quant’era lungo, tutto imbrodolato dal vino uscito da’ vasi che avea rovesciati, cogli stivali pieni di fango sui piatti d’argento, e russava senza darsi per inteso del diavoleto che si faceva intorno a lui.

      Le più sozze cortigiane s’aggiravano in quel disordine, come i vermi sguazzano nell’acqua corrotta. Correvano qua e là cogli occhi ardenti, le guancie infocate, quali tutte scinte, quali seminude; accolte ora con turpi carezze, ora con villane parole, con percosse, o con urtoni, senza che paresser curar più le une che gli altri.

      Un soldato salito a cavalcioni su una botte vuota sonava un piffero, e cacciava fischi che s’udivano a malgrado delle voci, delle grida, de’ canti e dello schiamazzar generale: un altro con una briglia da muli piena di sonagli, batteva a gran sferzate sulla botte per far la battuta; un terzo picchiava con un turibolo sovr’un paiuolo rovesciato, e questa musica diabolica serviva a far ballare chi poteva ancora reggersi in piedi.

      Fanfulla si fermò un momento sulla soglia ammorbato dal tanfo del vino, di sudiciume, di rifritto che esalava di là entro; poi venne avanti e scaricò sulla tavola la ferraglia che avea in collo senza guardare nè a stoviglie nè a bicchieri, e ne fracassò tanti quanti ne colse.

      Lo strepito che fecero l’arme cadendo, e rompendo piatti e boccali fe’ volgere uno de’ seduti a tavola che lo guardò, e ravvisatolo gridava:

      —Oh Fanfulla!—

      E poi un altro, e un altro, e un altro, poi tutti si dettero ad urlare battendo le mani, o percuotendo co’ pugni sulla tavola.

      —Fanfulla! e tornato

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