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Tutto quanto si vorrebbe sapere sul fatto di quegli antichi uomini, che negli amori, nell’ire, nella fede, ne’ sacrifici e persin ne’ delitti, mostrarono una ferrea natura tanto lontana dalla moderna fiacchezza?

       Ignoro qual sia la risposta del lettore. La mia è negativa.

       No, non conosco tutto quanto vorrei conoscere quando leggo gli onorati fatti di que’ cittadini animosi, le battaglie, i tumulti, le pratiche; quando li vedo in piazza magistrati, soldati, capi di parte; io ammiro in essi la virtù, la costanza, la fortezza, l’ardire; io mi maraviglio che la natura umana abbia prodotto individui di così potenti facoltà, ma domando invano allo storico quali fosser costoro che eran pur padri, mariti, figli, fratelli, quali fosser, dico, quando dopo una tempestosa giornata ritornavan la sera tra le pareti domestiche; quando, deposto l’arnese di guerra, e cercando un po’ di sosta alle cure, ai travagli che li stringevano al di fuori, riprendevano negli intimi colloqui della famiglia la forza di gettarsi a nuovi pericoli, a nuove fatiche.

       Trovata muta, insufficiente la storia, mi volsi alle cronache, ai carteggi, ai prioristi del tempo, alle tradizioni del popolo, ai monumenti. Interrogai le torri, le mura di Firenze, i bastioni di s. Miniato ove l’edera cresce e si stende ugualmente sui macigni repubblicani tagliati dallo scalpello di Michelangelo, e sull’impresa Medicea delle sei palle; come un’istessa tomba raccolse un tempo le ceneri di Polinice e d’Eteocle. Interrogai il Palazzo Vecchio, antico ed immoto testimonio di tanti trionfi, di tante rovine; che vide sorgere e cadere tante fortune: che dall’alto de’ suoi merli guelfi vide oppresso il duca d’Atene, vincitori i Ciompi, arso Fra Girolamo, strascinato il cadavere di Jacopo de’ Pazzi, calpestata tre volte l’idra medicea, e tre volte risorta: che sopravvisse alla repubblica, la vide vendicata nelle impure e sanguinose vicende della razza di Cosimo spenta vilmente dopo dugent’anni; edificio che ancora erge i suoi fianchi, sostiene l’alta torre d’Arnolfo posata a sottosquadro sulla facciata, destinato forse a veder tanti secoli nel futuro quanti ne vide già nel tempo passato.

       Visitai il Palazzo del bargello, ove in età più remote i priori della repubblica ebber il primo tetto, le prime sale che fosser loro proprie, per ragunarsi a consiglio: vidi quella scala del cortile tutta di marmo coperta d’una rozza tettoja come fosse la scala d’un contadino;[1] quelle massicce lastre del cortile che nel centro invece di fontana o di statua che l’adornasse, ebber tante volte il ceppo e la mannaja: che divenner vermiglie pel sangue di tanti cittadini, morti ora a dritto ora a torto, ma virilmente sempre: marmi che rimbombaron sotto i colpi onde furon tolti di vita il Boscoli, il Capponi, Bernardo del Nero, Francesco Carducci penultimo gonfaloniere della repubblica, e tant’altri, i quali tutti persero il capo al tremendo giuoco che tra la casa de’ Medici ed il popolo di Firenze durò più di cent’anni.

       Io scorsi le antiche dimore de’ cittadini, quei palazzi, o piuttosto fortezze domestiche di sasso annerite, merlate, tutte a un dipresso simili al palazzo Ferroni al Ponte s. Trinita; scorsi i cortili, le scale, entrai per tutto tentando figurarmi qual viso, qual discorso, qual costume avessero i loro antichi abitatori: come talvolta vedendo un elmo antico tutto rugginoso, ed alzandone la visiera, la fantasia tenta dipingersi il maschio ed ardito volto che dovette un tempo riempierne il vano.

       Colla fantasia dunque (e qual altra guida potevo io avere?) cercai per tutto ed in tutti i modi l’antico popolo di Firenze: quel popolo di tanto nerbo, di tanta vita che, dopo 300 anni di agitazioni, di guerre, di discordie, di furori, di proscrizioni, si trovò pure nel 1530 abbastanza vegeto e vigoroso da resister solo alla potenza di Carlo V, e cadde dopo lungo contrasto più tradito che vinto; popolo che prosperò quando pareva portasse in seno i germi della distruzione, che s’invilì, perdette ogni generosità, ogni spirito quand’ebbe lunga e stabile tranquillità sotto la dominazione de’ Medici.

       Forse perchè principio dello stato antico era accendere il pensiero della patria, principio dello stato mediceo conculcarlo ed estinguerlo.

       Ma le orme impresse sul suolo di Firenze dai suoi antichi abitatori, la civiltà moderna le ha cancellate quasi del tutto. Le hanno cancellate gli stranieri che ogn’anno scendono a godersi e vilipendere, quasi cortigiana, l’Italia.

       Contristato e pensoso del terribil giudizio che pesa sul nostro popolo, sperai almeno trovarne le antiche orme in qualche angolo dimenticato, ove gli usi, la lingua, il corso delle tradizioni, fosse rimasto puro, e non turbato dal passo delle genti nuove. Corsi il contado, salii sui monti di Pistoja, e mi consolai il cuore e l’orecchio udendo poveri pastori e contadini parlarmi la lingua del Firenzuola: ascoltando ciò che mi sapean narrare di Castruccio, di Francesco Ferrucci, che non avean certo conosciuti nelle storie o ne’ libri, ma d’età in età gli uni dagli altri avean imparato, che il primo fu un prode, il secondo morì sui loro monti per la salvezza di Firenze. Io benedico quelle ore ch’io passai colà seduto ad un umile focolare prestando orecchio ai rozzi e pur nobilissimi racconti di uomini semplici, che assai sapevano di quelle antiche e gloriose età, e nulla della presente, quasi un intimo senso insegnasse loro quel che essa vale. Io riuscivo persino in que’ colloquj a dimenticare questa età nostra, e mi parea, per dir così, viver in quell’altre, e vedermi innanzi vivi e reali quegli uomini che m’eran noti soltanto per averli veduti ritratti dagli storici, dai comici e dai novellieri.

       Io gli ho pur trovati! dissi tutto contento. Io ho trovato i modelli che ho in animo di dipingere! E m’ingegnai di studiarli; di ritrarre quanto potevo col vero prima, poi ajutandomi colle induzioni, e colla fantasia, la vita intima, le passioni, gli affetti dell’epoca che avevo scelta per collocarvi gli attori del mio racconto.

       Frutto di cotali studj, parte reali, parte fantastici, è questo mio lavoro; col quale, imitando gli architetti, che per dimostrare l’ordine interno d’un edifizio lo suppongono ne’ loro disegni tagliato pel mezzo, volli rappresentare in ispaccato la casa d’un popolano fiorentino durante l’assedio.

       Io feci per fare bene tutto quanto potevo. Se invece feci male, pensi il lettore che anche a far male costa fatica, e s’incontra difficoltà.

       Indice

      I fatti che stiamo per narrare accaddero circa il tempo in cui Firenze era assediata dall’esercito di Carlo V, il quale per mandare ad effetto il trattato di Barcellona conchiuso con Clemente VII, voleva costringere i Fiorentini a sottomettersi al dominio de’ Medici.

      Il popolo di Firenze negava di riceverli pure come privati e si difendeva, fatto animoso dalla memoria di que’ Medici stessi tanto facilmente cacciati nel 1527; dalle profezie di fra Girolamo Savonarola; dal desiderio del viver libero; dall’armi e dalle fortezze ond’era munito per cura della parte detta de’ Piagnoni, i quali s’avvedevano non esser l’Imperatore ed il Papa per contentarsi che i Medici tornati in patria cogli altri sbanditi Palleschi vi stessero quali privati cittadini, ma sotto tal modesta domanda aver in animo di farneli signori.

      Era una mattina sul finir d’ottobre dell’anno 1529, e l’alba pareva penasse più del solito a comparire, penetrando a stento la densa nebbia che copriva Firenze. Cadeva una pioggia fitta, cheta e congelata, che quasi si poteva dir neve, e per le strade, tranne qualche soldato, e le compagnie degli uffiziali di notte che tornavano in Palagio intirizziti, serrati ne’ mantelli, co’ becchetti de’ cappucci avvolti intorno al viso, non s’incontrava anima viva.

      Le porte e le finestre tutte chiuse, le imposte serrate, mostravano che la maggior parte de’ cittadini era ancora immersa nel sonno. S’andavano aprendo le chiese, ma non vi si trovava se non gli scaccini occupati a spazzare, e qualche sagrestano attendendo a preparar gli altari.

      In S. Marco soltanto, de’ frati Domenicani, le campane che suonavano a morto da un’ora innanzi giorno avean già radunato un piccol numero di fedeli.

      L’interno di questa chiesa non

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