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seguito, a Mario e a Silla piacque fondare su i nostri campi colonie mandate quaggiù, non sappiamo se a fecondarli con la fatica o piuttosto col sangue. I Côrsi, fatti simili agli uccelli, per quanto si può da cui va senza ale, dai comignoli dei monti agguardavano le pianure abbandonate da loro, dopochè i Romani, deriso l'antico tributo delle libbre dugentomila di cera, pretesero spogliarli di quanto in biade o in vino o in olio produceva la terra, e rigidi esattori inviarono a riscuoterlo Oppio e Tiberio Gracco pretori. Dall'alto delle pendici i Côrsi, quasi spettatori seduti in circo, mentre da un lato spasimavano pei perduti retaggi, dall'altro blandivano le ferite dell'anima alla vista dei duelli che l'avarizia o l'odio provocavano tra gli abborriti dominatori. Però nè anche le rupi salvarono, e queste ultime gioie vennero rapite; imperciocchè i Romani, conchiusa la guerra, incominciarono la caccia degli uomini. Nè dico cosa che non sia vera, dacchè con reti e cani si diedero a perseguitare per le selve i Côrsi come bestie feroci: fattane raccolta, mandavanli a Roma chiusi in gabbie per cavarne schiavi accomodati ai piaceri od alle necessità loro; ma per quanto ci si affaticassero attorno, non riuscivano ad acconciarli a nulla, e Strabone ne chiarisce le cause con queste parole: «Quantunque volte un capitano romano, scorrazzando l'isola, metta insieme una funata di schiavi e li mandi a Roma, destano in cui li mira grandissima maraviglia, non si sapendo se prevalga in essi la stupidità o la ferocia: molti abborrendo la vita si ammazzano, gli altri impazziscono o paiono corpi morti per guisa, che il padrone piglia a detestarli, maledicendo il danaro, comecchè poco, gittato in comperarli.» Strabone, pensando vituperarli, non poteva lasciarci della natura indomita dei padri nostri testimonio più solenne di questo; imperciocchè fino da tempi remotissimi si conosca com'essi sapessero al tedio della servitù preferire la morte.

      Dai Romani cascammo in potestà dei Greci, come un brandello di carne che il lupo vecchio, non potendo masticare, regala alle zanne dei lupicini. Sotto la dominazione loro i Côrsi, stremi di ogni bene, ebbero a pagare i tributi con monete di creature battezzate: così è, in vece di bisanti, figliuoli: ed il flagello, come in gravezza, crebbe di numero, perchè in un groppo ci capitarono sul capo Vandali, Goti, Saracini e Longobardi. Questi ultimi, oltre i mali presenti, ci lasciarono il germe dei futuri, come i Numidi fuggendo balestrano frecce avvelenate. I Saracini non potevano durare; perchè, pazienza se, figurandosi di aver dato il mondo a fitto, si fossero contentati dei raccolti, lasciando tanto ai coloni che potessero vivere! ma no; essi portavano via bestie, biade e coloni: sicchè voi capite bene che questa storia non si poteva rinnovare ad ogni capo di anno. In effetto gli storici, massime i romani, raccontano come Dio, tocco dalle supplicazioni del papa, c'inviasse il liberatore: vediamo quale. Carlo Magno, usurpato il regno ai nepoti, scende a combattere Desiderio, presso cui si erano rifuggiti cognati e nepoti. Incomincia da Carlo la forza a farsi ipocrita: ladro ai nepoti, costui s'industria dare ad intendere che Dio gli manda lo star bene a mediazione del prete; e il prete di Roma parve nato a posta per questo. «Facciamo a mezzo, egli bisbigliò nell'orecchio allo imperatore dei Franchi, ed io ti reggo il sacco. Vuoi tu che ti spedisca la patente di galantuomo soltanto, o ami piuttosto che io ti mandi in paradiso addirittura? Questo rimetto a te, prima che spartiamo la roba.» Carlo Magno, che, a confessarla giusta, fu generoso quanto un pirata, rispose: «In paradiso più tardi»; e, donati a san Pietro i più bei tòcchi d'Italia e con essi la Corsica, si contentò di essere creato galantuomo in virtù della bolla pontificia. I Genovesi assegnano proprio a questa epoca la conquista operata dalle armi loro di Corsica sotto la condotta del conte Ademaro: non potevano scegliere peggio. Genova allora non era principe bensì vassalla come le altre città italiche, di Pipino; e Ademaro reggeva la Liguria prefetto in nome di lui; nè egli genovese, bensì franco, e lo dice espresso Einardo nella vita di Carlo Magno; nè i Genovesi allestirono l'armata, al contrario apparecchiavala il re Pipino e spedivala; per ultimo non vinse i Saracini Ademaro, al contrario rimase sconfitto e per di più morto; chi li vinse fu il contestabile Burcardo, che l'anno seguente tra le acque sarde e le côrse gli sterminò. Tanto mi piacque rammentare perchè tra i novellatori di questa canzone io trovo Uberto Foglietta, uomo certamente amico della libertà, per la quale ebbe a patire non poco, ma, come nato a Genova, non amico del pari della giustizia almeno rispetto alla Corsica. Gran cosa è questa che, mentre il mondo avrebbe bisogno di giustizia più che di pane, avviene di lei quello che vediamo accadere del sole, il quale mentre schiarisce metà del globo, ne lascia l'altra metà nelle tenebre! Ma ditemi in grazia, signor Inglese, vi annoio?

      — No in verità; anzi mi pare pigliarci diletto, mi pare.

      — Ditemelo senza cerimonie, sapete; poichè mi accorgo essermi cacciato dentro un ginepraio da non poterne uscire senza scapito. Al modo col quale ho cominciato, dubito che l'amore di patria non faccia piangere la carità del prossimo.

      — Quanto a questo, pensateci voi; accomodateli insieme senza che strillino troppo.

      Disse lo zio ad Altobello: — Dammi un bacio, e andate pel vostro dovere. (pag. 55)

      — Allora favoritemi una presa di tabacco, e ripiglio il filo baldanzoso, facendo conto che amore di patria e carità abbiano a formare tutta una cosa: che se per disgrazia fossero due, e l'ultima avesse a toccarne, ora che mi ci sono messo vo' dire tutta la verità: poichè chi l'ha da friggere la infarini, ch'io ne farò penitenza a bell'agio. Carlo Magno dunque, incoronato da papa Adriano, costumò come tutti i cristianelli di Dio, i quali passata la festa gabbano il santo; dacchè ora con questo, or con quell'altro amminicolo andava schermendosi dal consegnare quanto aveva promesso, e, preso alla gola, dava a spizzico e tardi: la Corsica poi non dette mai: la governarono per lo impero i marchesi di Toscana e con essi i conti feudatarii delle varie terre dell'isola. Voi saprete le diavolerie successe tra i discendenti di Carlo Magno, che si strapparono l'impero di mano come una giubba rubata: in mezzo al tramestio l'erede del pescatore figurate un po' voi se gittava il giacchio nel torbido. Antiche memorie e tradizioni sempre vive assegnano a questi tempi la investitura di tutta o parte dell'isola a un certo Ugo Colonna romano, e dopo al conte di Barcellona, con questo patto, che retribuissero a Roma il quinto dei raccolti e la decima dei fanciulli. Che cosa poi andassero a fare cotesti fanciulli a Roma, sarà più bello non inquisire che onesto trovare. Però negano questi fatti di due maniere persone: quelle che, zelando troppo il patrio decoro, dubitano ricevere dal turpe tributo non reparabile infamia; e gli sviscerati della curia romana, cui non ripugna il caso, bensì lo scandalo. Si non caste, saltem caute, mi capite? Però riesce più comodo negare che facile chiarire falso cotesto fatto e gli altri che la storia aggiunge, voglio dire i rigidi delegati spediti dal papa fino al numero di cinque per vigilare che i tributarii non frodassero delle grasce nè dei fanciulli. Se i Côrsi avessero aspettato dalla verecondia romana la cessazione di cotesto censo, aspetterebbero anche adesso: ci si pose di mezzo Arrigo Belmessere e, intercedendo ancora il vescovo di Aleria, fece lasciare la presa ai mastini papali. Dicono che ciò non si ottenesse senza difficoltà, e al vescovo di Aleria ne toccasse una ramanzina delle buone, facendo specie che un ecclesiastico, un vescovo impedisse la osservanza dei dettami evangelici; della quale cosa maravigliato costui chiese spiegazione, e gli fu data così: «Non disse forse Gesù Cristo ai suoi discepoli, che allontanavan i fanciulli da lui: Lasciate ch'essi vengano a me? Ora il papa non rappresenta egli Cristo, e voi uno dei discepoli suoi?» Caro mio, quando l'interesse ci ficca la coda, non vi aspettate a più santi commenti della parola di Dio, massime dai preti. Voi intanto notate questo, che ne franca la spesa: da prima i Côrsi, ridotti alla disperazione dai Greci, vendono eglino medesimi i figliuoli per pagare i tributi; i Saracini poi se li pigliano da sè; per ultimo spettava alla corte romana mettere per patto nella investitura feudale la decima dei fanciulli.

      Ora le città italiche per forza o per amore incominciano a costituirsi a comuni franchi da soggezione imperiale. Comuni noi non avevamo, bensì conti: ma siccome la libertà piace a tutti, principalmente a quelli che non la vogliono lasciare godere altrui, anch'essi si vendicarono dalla servitù forestiera per contendere indi a breve della signoria domestica, e, virtù fosse o fortuna, tra questi rivolgimenti primeggiò il conte di Cinarca. La storia registra l'orribile governo che i tiranni facevano dei Côrsi; ma ad eterna onoranza dei nostri padri registra eziandio queste parole: i principi imperando a tirannide, i Côrsi agguantano le armi e bandiscono la libertà; poi convocata l'assemblea a Morosaglia, si costituiscono rettore Sambucuccio di Alando. Così è, signor Inglese;

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