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odio; ma infelicissimo quegli che abbisogna della pietà degli altri!

      «Alamanni.» e l'uno nelle braccia dell'altro precipitava... Cap. I, pag. 5.

      «Veramente, Luigi», rispose il Buondelmonti, «la miseria flagellando scuopre la carne viva, sì che le fibre spasimano ad ogni lieve crudezza: però non vuolsi negare come l'uomo di rado e malvolentieri perdoni qualunque sorta di superiorità, e il felice beneficando si dichiara coll'atto superiore allo sventurato. — Qual merito è il suo per vivere più contento di me? — nella rabbia del cuore si domanda l'offeso dalla fortuna: e, la ingiustizia confondendo con l'uomo che la rappresenta, trasuda odio per tutti i pori del corpo. I beni acquistati per accidente di fortuna più di leggeri egli assolve che gli altri concessi per fatalità di natura: la ricchezza quindi più agevolmente della grazia, la grazia della forza, la forza della bellezza, la bellezza dell'ingegno. Pel genio poi non vi ha perdono in questa terra: gli volgano i casi favorevoli o avversi, egli è solo. Messo sul capo de' suoi fratelli, ben egli ha potenza di pestarlo o illuminarlo, ma gli è vietato baciarlo; dove si chinasse un momento, sarebbe una stella caduta, avrebbe tradito il suo officio per pochezza di cuore: soffra, sia grande e tacia. Dalle angosce della sua solitudine usciranno insegnamenti a migliorare il vivere degli uomini tra loro: intanto sè stesso nudrisca divorandosi; sublime di grandezza e di dolore, si apra il petto e, a guisa di mistico pellicano, le schiatte dei fratelli rigeneri con un battesimo di sangue e di scienza. Così, per certo, si mantiene dal destino in giusta lance cui ebbe troppo, e cui troppo poco; così forse merita pietà chi maggiormente pensiamo degno d'invidia. Sempre a sè medesimo gravoso, spesso ai suoi fratelli, funesto, vilipeso, sconosciuto, perseguito, il genio è condannato ad una perpetua ebbrezza di angoscia e di gloria.»

      «Forse è così, come dici, o Zanobi: e l'una parte e l'altra avranno torto o più tosto ragione; però che l'esperienza m'insegnasse queste due parole non corrispondere a cosa effettuale di per sè stessa stante, sì bene essere modificazioni di cose secondo i tempi o le sorti o gli uomini diversi. Francesco Sforza tolse via la repubblica di Milano; e poichè i cittadini non sentirono virtù da impedirlo e da spegnerlo, fu duca ed ebbe ragione: se lo tentava quando i Lombardi con la creta e con la paglia contrastarono all'imperatore Barbarossa, sarebbe stato ridotto in pezzi e avrebbe avuto torto. Arnaldo da Brescia, Giovanni Hus e Martino Lutero intesero ad un medesimo fine: i primi due vennero al mondo troppo tosto e capitarono male; il terzo nacque in tempo giusto, ed ogni giorno, come tu vedi, prospera. Ma, lasciando per ora di ragionare intorno a sì fatto argomento, dimmi tu pure come e quanto pativi: è cosa dolce sopra la terra dei nostri padri discorrere insieme gli affanni dell'esilio. Di te non intesi novella mai: e quando mi ricorreva al pensiero la tua cara immagine fraterna, involontarie le labbra mormoravano la preghiera dei defunti.»

      «Ed in vero io non vissi. In quella guisa che gli antichi credevano lo spirito dipartito dal corpo non sapesse o non potesse abbandonare i luoghi dove giacea sepolto il compagno della sua vita, così io mi aggirai per le varie contrade d'Italia. A Roma poi, più sovente che in altre parti traeva come a sicurissimo asilo. La luce abborriva e gli uomini, perchè io non ho cuore da sopportare la vista di un popolo caduto sì basso. E pure coloro i quali adesso mangiano e bevono e dormono in Roma ardiscono vantarsi sangue latino, chiamarsi figli degli antichi Romani! Sì certo, come i vermi potevano dirsi figli di Bruto diventato cadavere. La notte invocava che col suo più denso velo ricoprisse le infamie d'Italia, e la supplicava eterna; usciva pel buio a vagare, simile ad un insetto, traverso le infinite volte del Colosseo, monumento sul quale i secoli, poichè invano tentarono distruggerlo, si posano come sopra un trono conveniente alla loro maestà; ma nell'insetto era potenza d'immaginare, e quindi riempiva cotesta arena di aneliti, di grida e di strage, e quei gradini popolava di una gente a cui porgeva acuto diletto un colpo mortalmente ferito, un'agonia fortemente sofferta; e da cotesti spettacoli vedeva sorgere la gente romana e correre a portare nell'universo catene e seme di futura vendetta: però le larve sparivano, e tremendo mi stava davanti gli occhi il sepolcro delle rovine di Roma; sì, dico, sì, anche le rovine sono state sepolte: chi ne conobbe fin qui tutte le sue ossa! Se rimanessero intere le rovine della superba città, ne uscirebbe una voce di spavento allo straniero, una voce di risurrezione ai nostri stolti e codardi: grandezza, gloria, popolo, costumi e rovine di Roma, tutto precipitò nella morte. I numi muoiono anch'essi. Del tempio di Giove avanza una colonna sola, quasi cippo sepolcrale di religione defunta. Ahimè! l'aspetto dell'antica miseria non giova a confortare la nuova. Cessiamo dal piangere sopra le glorie passate; piangiamo più tosto, e a maggiore ragione, la odierna viltà che ci contende di sollevare l'anima dalla terra. Ogni popolo trama il proprio destino; ogni uomo può violentare la sua Parca. Non è questo il terreno dove vissero i Romani? non è questo il cielo che li copriva? non queste le stelle che tante volte scintillarono sopra i nostri trionfi? Nulla è mutato; noi solo siamo fatti diversi. Ecco, io diceva a me stesso, giunse nella terra dei padri miei il giorno d'ira e di abiezione, nel quale i popoli portano le catene come ghirlande di fiori e credono non avere mai la testa tanto bassa, la voce tanto dimessa, il dorso tanto curvo da prostituirsi al proprio simile: ora che più resta all'uomo nato libero? Avventi contro Dio la sua anima, come saetta dall'arco, e mora incontaminato. Moriamo. E a corsa m'incamminava verso la patria, chiuso nel tremendo pensiero di maledirla e di spegnermi. Valicai furente i gioghi dell'Appennino: l'anima mia si accordava con gli urli dei lupi vaganti pe' boschi e li vinceva in ferocia; le mani atteggiate ad imprecare, mi affacciai dalla sommità dei colli, giù per le valli lanciai uno sguardo infocato quanto il fulmine del cielo.... Ahi la patria! la patria! nel giorno del dolore più leggiadra mi apparve che in quello dell'esultanza, siccome grazia aggiunge e vaghezza al volto della donna il pallore che la mestizia vi diffonde coll'alito gentile. Occorrono sopra la terra creazioni di così incorrutibile bellezza su le quali la traccia della sventura non si manifesta come oltraggio, ma quasi un bacio; e la nostra patria, o Luigi, è tra queste. Gli occhi mi s'ingombrarono di lagrime, mi caddero le mani; ed in quel modo che Balaam, chiamato a maledire il popolo di Dio, lo benedisse tre volte, io le invocai bellezza sempre uguale, destini diversi. Scesi dai colli con l'ansia d'una madre la quale, spaventata dai lunghi sonni del figlio, si curva sopra le sue labbra a spiarne la vita, ed entrai nei casolari degli agricoltori: colà vidi accendersi volti alla memoria della nostra abiezione, quivi udii suonare la parola della libertà: allora mi accôrsi che la patria non era anche morta; onde, prostrato sopra la terra de' miei padri, con le viscere del cuore supplicava: Desta, o Signore, la bella addormentata. Tu, padre, schiudi le dimore celesti, a tutti ospitale: l'anima del forte e quella del debole sono parte dell'anima tua; perchè dunque tu soffri la schiatta dei tormentatori? Le mani strette dalle catene non possono sollevarsi verso di te. Vedi, i fratelli hanno contristato lo spirito dei fratelli, gli hanno percossi, gli hanno fatti piangere: perchè tanto splendide creasti le sfere, così squallida la terra? Manda la figlia migliore del tuo pensiero, la libertà, ad albergare tra gli uomini; e la terra fie che emuli di magnificenza il firmamento: allora queste due creazioni alterneranno in tua gloria un cantico nuovo, e i cieli, fino ad ora cupamente muti, palpiteranno di echi divini. Lévati dunque giudice e comanda che lo svegliarsi di un popolo sia come quello di un leone e non riposi finchè non abbia divorato la preda e bevuto il sangue degli uccisi[13]. Ora, ecco, Iddio ha esaudito la preghiera dell'esule; e di forza, di amore pieno e di ardire, a pena giunto qui, piegai i passi a salutare il grande, che da noi vuolsi onorare dopo Dio prima, perchè, se da lui avemmo la vita e la patria, egli c'insegnava ad amarla ed a morire degnamente per lei.»

      «E già tardammo anche troppo», soggiunse Luigi Alamanni; e così favellando prese pel braccio il Buondelmonti e salirono.

      Non incontrarono persona nè udivano muovere passo o articolare parola: una lampada appesa alla volta della sala ardeva solitaria e prossima a morire. Appena v'ebbero posto il piede i due amici, si avvivò, mandò su le nudi pareti un getto di luce, quasi volesse dire: — contemplate la povertà di Nicolò Machiavelli —, e si spense. Allora ristettero pensosi e meditarono se quella miseria o il grande che la soffriva maggiormente onorasse, o i suoi concittadini che gliela lasciavano sopportare avvilisse. Percossi dallo insolito silenzio, si avvolgono per lunga serie di stanze prive di lume; alla fine giungono in parte dove vedono scaturire una striscia di luce; si accostano all'uscio ed aprono.

      Nicolò Machiavelli giace vicino all'ultima sua ora;

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