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città, in due, sarebbero vissuti felici e comodi perché il ricavato della vendita della casa e dell’orto li avrebbe aiutati. Non sarebbero andati dai Lanucci, gente troppo triste; sarebbero rimasti soli perché volevano vivere allegri. Forse nessuno dei due sinceramente sperava, ma intanto era una bella musica che ascoltavano. Le parole non sembravano irragionevoli. Perché abbandonando quei luoghi ella non avrebbe potuto lasciarvi la malattia?

      Furono ben presto richiamati alla triste realtà. Per un quarto d’ora alla signora Carolina riuscì di celare che si sentiva male. Alle domande di Alfonso, il quale della sua inquietezza s’era avvisto, ella rispondeva che stava bene quantunque agitata. Volle anche reagire. Premeva una mano di Alfonso come se in quella stretta cercasse sollievo e teneva chiusi gli occhi avvertendo che voleva dormire. Ma questa resistenza durò poco e con un grido di dolore si levò a sedere.

      — Non ne posso più! — mormorò sordamente. Aveva il respiro frequente e breve. — Fin qui, — disse accennando a un punto del petto, — l’aria non giunge più oltre. — Da questa espressione soltanto egli comprese che cosa ella sentisse.

      Come ella volle, l’aiutò ad alzarsi dal letto e sedere su un seggiolone comodo su cui il vecchio Nitti aveva passato parecchie ore d’ozio all’aria aperta e che ora era accanto al letto, destinato proprio a ricettare l’ammalata nelle sue ore peggiori. La coprì, mentre livida, coperta da un sudore freddo, ella abbandonava la testa sullo schienale; apparentemente non vedeva ciò ch’egli andava facendo. Di tempo in tempo dava un grido con voce alterata, o anche, con sommo sforzo, esprimeva qualche parola con la quale si lagnava o imprecava.

      Per parlargli ella non trovava tanta voce quanto per lagnarsi. Due volte egli non comprese che cosa ella gli chiedesse. Voleva aria, voleva ch’egli aprisse la finestra e, dopo compreso, avendo egli esitato temendo per essa del freddo, esasperata con un’occhiata di risentimento, ella mormorò:

      — L’aprirò io.

      Non lo fece perché non le riuscì di alzarsi dal seggiolone.

      Dalla finestra ch’egli aveva spalancata, entrava ora l’aria in abbondanza. Ad onta della mortale agitazione in cui si trovava, egli se la sentiva entrare benefica nei polmoni assetati. La respirazione della madre continuò frettolosa e superficiale.

      Egli si rammentò che avrebbe potuto avere bisogno di Giuseppina. Corse nella stanza vicina e la trovò che dormiva con le coperte fino al mento. La chiamò gridando, ma inutilmente, e impaziente dovette risolversi a scuoterla per un braccio.

      — Che c’è? — mormorò ella, e si capiva che a mezzo desta lottava per continuare a dormire perché tentava di sottrarsi alla mano che l’aveva afferrata, e si faceva piccola piccola contro il muro.

      — Mamma sta male. Si alzi e accenda il fuoco.

      — Ma se non serve! Bisogna lasciare che passi da solo.

      Senza dubbio ella era quasi del tutto desta, ma usava della poca capacità di ragionare che così aveva acquistato, per tentar di provargli che sarebbe stato bene di lasciarla nel suo letto.

      — Si alzi! — ripeté imperiosamente Alfonso e dovette correre via chiamato da un grido della madre.

      La signora Carolina era ritornata da sola nel letto e premeva la bocca sul guanciale. Lo pregò ora di chiudere la finestra perché il caldo forse le avrebbe fatto bene e poco dopo gliela fece riaprire, sempre sorpresa che da tanti tentativi non le venisse alcun sollievo.

      — Ho fatto accendere il fuoco. Vuoi un tè che forse ti calmerà?

      — Sì, sì, — gridò ella con una gioia come se le avessero proposto di star bene.

      Giuseppina era ancora in letto e di nuovo addormentata. Furibondo egli la trasse con violenza per il braccio che pendeva penzoloni fuori del letto; era l’unica parte che avesse obbedito alla prima chiamata. Irritata e quindi ben desta, Giuseppina si mise a gridare ch’era una vergogna che dopo una giornata in cui aveva molto lavorato non la si lasciasse dormire. Poi però fu spaventata.

      — È matto? — chiese a mezza voce vedendolo saltare per la stanza e gettarle raggomitolate le sue gonnelle.

      — Si levi immediatamente e faccia un tè, — le gridò furibondo, — altrimenti la getto fuori della porta.

      Ella si apprestò ad alzarsi senza mormorare più oltre.

      L’affanno doloroso avuto dalla madre era diminuito; aveva ancora la respirazione celere ma non si lamentava più. Qualche poco di sangue era ritornato a colorirle il volto. Così supina con le braccia inerti sembrava dormisse. Badando di non far rumore egli chiuse la finestra. Allorché venne Giuseppina col tè, volle impedirle di andare al letto, ma la signora Carolina la chiamò. Bevette qualche cucchiaiata di tè senz’aprire gli occhi e Giuseppina, vedendola calma, disse agramente:

      — Non era dunque tanto grave!

      — Esca! — gridò Alfonso indignato al vederla tanto indifferente.

      — Perché ti adiri tanto? — chiese la signora Carolina quando Giuseppina fu uscita. — Già non serve! Non capisce nulla!

      Ella dunque soffriva dell’imbecillità e indifferenza del suo contorno.

      Per altra mezz’ora ella non si mosse, ma quando egli già sperava che si fosse addormentata la sentì parlare. Era un pensare ad alta voce.

      — Non dicevo niente! — rispose all’interrogazione ch’egli le fece. Ma poi senza ch’egli altro domandasse, soggiunse: — Pensavo quale sciocchezza sia quella di fare dei piani per l’avvenire trovandosi nelle mie condizioni.

      Cercò d’incoraggiarla e mancando di migliori argomenti parlò della medicina prescrittale dal medico. Quella doveva darle la salute e, visto che non l’aveva mai presa regolarmente come si doveva, bisognava tentare. Fu il primo ad essere convinto dalle proprie parole. Infatti il più forte dei suoi doveri, quello che gli altri avevano trascurato, era di convincerla a seguire la cura. Se la salvezza era ancora possibile, non poteva venire che da quella.

      Le portò un cucchiaio della pozione fin sotto le labbra quando ella non aveva ancora assentito. Stringendosi nelle spalle ella si lasciò convincere.

      Un’ora dopo stava meglio.

      — Sì, sì, — disse ella per calmare gli entusiasmi di Alfonso, — anche il mese scorso la medicina mi giovò la prima volta che la presi, mentre poi non mi fece che male.

      Egli si sdraiò vestito sul letto del padre e si propose di non dormire. Il sonno lo vinse e non si svegliò che a giorno chiaro.

      — Come stai? — chiese alla madre ch’era stata a guardarlo a dormire.

      — Meglio, meglio! — rispose essa con un sorriso di gratitudine, — ho preso un’altra cucchiaiata della medicina e mi sento alquanto sollevata.

      Poi gli chiese se non avesse desiderio di vedere il villaggio e salutare i suoi vecchi amici. Lo assicurò che per una o due ore poteva rimanere sola.

      Egli raccomandò a Giuseppina, che trovò già occupata di nuovo nell’orto, di badare alla madre ed ella glielo promise. Le parlò con dolcezza. Già spaventata al vederlo, la contadina s’era affrettata a raccontargli che stava raccogliendo erbaggi per il pranzo. Ella non era una poltrona, ma preferiva lavorare la terra che servire un’ammalata, e il torto era di chi l’aveva destinata a infermiera.

      La casa stranamente volgeva uno dei lati alla strada maestra ed era unita a questa da un viottolo costruito dal piede dei passanti.

      La campagna era ancora bianca dalla brina che il sole autunnale non aveva saputo sciogliere. Visto da quel punto, il villaggio sembrava molto più insignificante di quanto fosse; pareva composto di due semplici file di case. Una curva della strada maestra nascondeva la parte meno regolare ma più popolata. Dalla parte della valle v’era ancora una via della lunghezza di metà della principale a cui era parallela e poi, addossato a quella, un mucchio disordinato di casette sucide ove abitava la parte più

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