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Fumigi era tale che per poter fingere di non conoscerne la causa non si poteva fingere di non avvedersene.

      — Sta forse poco bene?

      — No... sì, un poco di emicrania. Ma quello che mi disturba di più si è di dover stare all’aperto per essere sicuro di non mancare all’appuntamento. Del resto, a pensarci, l’assicuro che m’inquieto per cosa che assolutamente non lo merita.

      — È cosa di piccola importanza? — chiese Alfonso stupefatto.

      — No, di grandissima, ma insomma... — e diede un’alzatina di spalle la quale ad Alfonso sembrò volesse significare una sicurezza assoluta del fatto suo.

      — Allora perché agitarsi?

      Alfonso continuava a tranquillarlo, ma avrebbe dato molto per togliere a Fumigi quella fiducia che lo feriva profondamente.

      Per brevi istanti Fumigi sembrò più tranquillo. Poscia ripiombò nelle sue meditazioni e dava tanto poco ascolto ad Alfonso che tutto ad un tratto si congedò interrompendo altra frase che Alfonso andava fabbricando per dargli calma. Aveva bisogno di rimanere solo, ma più che altro desiderava di perdere tempo, e si congedava avendo così qualche cosa da dire che non fosse quello che per sollevarsi avrebbe raccontato tanto volentieri. Si congedò con molte parole raccontando che anche prima dell’appuntamento doveva recarsi in altro luogo.

      Alfonso lo seguì con occhio attento e non gli sfuggì in lui una lieve esitazione sulla via da prendere quando fu giunto nel bel mezzo della piazza. Era chiaro! Il poveretto portava a spasso i suoi dubbi dolorosi; altro scopo non aveva di moversi.

      E Alfonso da quella sola esitazione fu mosso a compassione e tolto all’ira destata in lui dalla sciocca sicurezza di Fumigi. Tant’oltre andò questa compassione ch’egli si perdeva a sognare sulle vie ch’erano aperte per conciliare la sua con la felicità di Fumigi. Non ve n’era, ma ciò non gli impedì di costruire su quella situazione un romanzo in cui a sé riserbava la parte non disaggradevole di amico di casa Fumigi. Disaggradevole per lui era il sentimento di aver cooperato a fare l’infelicità di Fumigi, di aver meritato l’odio di qualcuno per la prima volta in vita sua, lui consapevole. Bastava a procurargli un profondo disgusto della sua felicità.

      Andò a lavorare al romanzo perché gli sembrava di meritare così meglio la sua fortuna, e si sottopose al disgustoso lavoro quasi avesse voluto placare l’invidia degli dei dimostrandosi meno felice.

      Bastò una parola di Miceni per togliergli in parte la sua sicurezza.

      — Probabilmente a quest’ora tutto è conchiuso!

      Se in quello stesso istante ad Alfonso fosse stato annunziato che Fumigi, subito il rifiuto da Annetta, si era ucciso, non gliene sarebbe doluto affatto.

      E il caso volle che per parecchi giorni rimanesse in tale stato d’animo. Quella sera non venne ricevuto da Annetta. Lo fermò sulle scale la cameriera per avvisarlo che la signorina Annetta non poteva riceverlo.

      — C’è qualche cosa di nuovo? — chiese Alfonso spaventato. Poi, vedendo la sorpresa dell’altra, aggiunse a spiegazione:

      — La signorina è forse indisposta?

      — No! — rispose la cameriera, una donna vecchiotta, vestita con pretesa e che aveva trattato Alfonso sempre con grande indifferenza forse anche perché egli s’era dimenticato di farle un poco la corte — sta benone. — Corse via come se per il molto da fare non potesse rimanere in ozio neppure per pochi momenti.

      Bastò per dare ad Alfonso il dubbio che la domanda di Fumigi fosse stata accolta altrimenti di quanto egli avesse supposto. Donde era derivata a lui quella sicurezza in cui si era cullato? Non sapeva nulla di nuovo, ma ora andava raccogliendo prove che la domanda di Fumigi era stata accolta favorevolmente e non più, come aveva fatto sino ad allora, indizii che fosse stata respinta. Persino la fretta della cameriera gli parve che provasse essere avvenuto un grave mutamento nella vita di Annetta.

      Egli era ancora convinto che Fumigi dovesse essere stato rifiutato, ma soltanto perché non gli sembrava ammissibile che Annetta si adattasse a sposarlo; non per altro amore, non per amore a lui. Egli non c’entrava in quella risoluzione, questo ora sentiva. Era ora minacciato da una grande sventura, ma quando l’imminente pericolo fosse stato scongiurato egli non si sarebbe perciò sentito più sicuro.

      Il giorno dopo Miceni gli disse che ancora nulla di nuovo sapeva, ma che non aveva premura. La sua carta da visita per felicitazione sarebbe sempre giunta in tempo. Scappò via non permettendo ad Alfonso di dare una risposta ch’egli doveva prevedere poco gentile. Non s’erano detti una sola parola sulle relazioni di Alfonso con Annetta, ma Miceni agiva come se le conoscesse e Alfonso se ne accorgeva.

      Andò alla sera da Annetta. Per la via si abbandonò alle maggiori speranze. Si aspettava di trovarla immutata e attendendolo in quella biblioteca ove poteva passare altre ancora di quelle serate indimenticabili.

      Stava per deporre il cappello all’entrata già rassicurato, quando Santo, ch’era sul pianerottolo, lo chiamò:

      — La signorina non può riceverla quest’oggi; è indisposta.

      Alfonso impallidì. Ma Miceni aveva dunque ragione?

      — Molto ammalata? — chiese a Santo. Anche con costui bisognava fingere.

      — Oh! sa! le donne! — fece Santo con l’irriverenza che gli era propria quando parlava dei suoi padroni dietro alle loro spalle.

      Non era ammalata! In quel tinello completamente illuminato come nelle serate di ricevimento, forse ella sedeva accanto a Fumigi, il quale gustava a pieno della gioia di quelle dolci espansioni, quella calma del possesso non più contrastato che Alfonso credeva fosse la suprema delle felicità.

      Santo già gli aveva voltato le spalle. Fino ad allora e dacché lo aveva veduto in casa Maller, Santo lo aveva trattato con servilità anche seccante. Il suo disprezzo era segno evidente che lo considerava decaduto. Alfonso lo seguì per alcuni passi:

      — La prego di dire alla signorina Annetta ch’io sono stato qui e che mi dispiacque molto di aver udito della sua indisposizione.

      Scese le scale guardando dinanzi a sé e senza degnarsi di corrispondere al saluto che Santo pur gli fece. Il suo pensiero era ancora sempre rivolto a quei due che soli nel tinello forse si baciavano, ma finché non giunse sulla via camminò impettito badando di non lasciar trasparire neppure dal suo volto qualche cosa dei sentimenti che lo agitavano. Era possibile che in quella casa qualcuno lo osservasse per gioire del suo dolore.

      Era un’idea sciocca; nessuno di lui più si occupava neppure per fargli del male. Piovigginava ed egli teneva l’ombrello chiuso in mano. Era irritato perché pensava al modo col quale avrebbe dovuto raccontare il fatto a Miceni e andava immaginando l’ironia atroce quanto facile di costui. Ma egli non aveva più da aver riguardi. Celare le illusioni sciocche, ora lo riconosceva, nutrite da lui fino a quel giorno, era cosa impossibile con Miceni. Ebbene, egli avrebbe cercato di descrivergli come queste illusioni erano nate e come Annetta le avesse incoraggiate.

      Se tutto era finito come egli andava ripetendo a se stesso, molto ma molto era perduto per lui. Lo scopo della sua vita; perché che cosa gli restava? L’ambizione l’aveva dimenticata in quell’amore e non credeva che in lui potesse rivivere, e per il suo destino in casa Maller non valeva la pena di vivere. Era stato un sogno magnifico quello di farsi trarre dal suo avvilimento con un bacio di donna. La vita perdeva quel suo aspetto di rigidezza ingiusta, mandava la fortuna e la felicità a chi la meritava e senza esigerne lotta; di lassù veniva una regola, per lui la ricchezza e l’amore.

      Si ritrovò bagnato fino alle ossa e molto lontano da casa. Era poi vero? Egli riteneva che se non si fosse trovato nel dubbio, la sua agitazione sarebbe stata minore. Avrebbe deciso sul contegno da tenere e credeva di potersi ancora procurare qualche soddisfazione nella sua sventura. Poteva portare il capo alto, rimeritare l’indifferenza con l’indifferenza, essere ferito e ferire mostrando d’essere incolume. Annetta era capace di voler trionfare del dolore che aveva saputo apportargli.

      Era

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