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da fare la posta corrente che a Miceni e a due altri impiegati; gli altri tutti facevano un lavoro basso di copiatura e di revisione di conteggi: «È preferibile un impiegato che comprenda a dieci imbecilli» soleva dire Sanneo. Miceni chiamò tutti ad aiutarlo e ad Alfonso toccò scrivere piccole lettere italiane di scritturazione, lavoro più variato e più piccolo di quello avuto sino ad allora.

      Solo nella sua stanza, trovò il tempo di leggere dei libri che si portava di casa. Romanzi non leggeva avendo ancora sempre il disprezzo da ragazzo per la letteratura detta leggera. Amava i suoi libri scolastici che gli ricordavano l’epoca più felice della sua vita. Uno di questi leggeva e rileggeva instancabile, un trattatello di retorica contenente una piccola antologia ragionata di autori classici. Vi si parlava per lungo e per largo di stile fiorito o meno, lingua pura o impura, e Alfonso, avuta l’idea teorica che faceva sua, sognava di divenire il divino autore che avrebbe riunito in sé tutti quei pregi essendo immune da quei difetti.

      Alla sera nella stanza di Alfonso, la quale era la più appartata, si riunivano parecchi corrispondenti a chiacchierare. Quando c’era il signor Sanneo vi si stava sempre all’erta perché capitava inatteso come una bomba, col suo passo sempre affrettato e a pena entrato, qualunque ora fosse, gridava: «Non perdano tempo, non perdano tempo!». Nessuno si arrischiava di rispondere e il gruppo si scioglieva come una mandra dispersa da un cane imbizzito.

      Miceni invece, anche adesso, veniva qualche sera a passare la mezz’ora quieto in quella stanza. Stava zitto, sdraiato sul vecchio sofà, stanco ma lieto della giornata, agitato dall’importanza del suo lavoro.

      Ballina lo trattava per derisione con rispetto affettato. Un giorno, nella foga del lavoro, Miceni gli aveva rimproverato lentezza ed egli non gliela perdonava. Miceni cercò di giustificare quella sgridata, ma Ballina gli rise in faccia:

      — Come se gli affari della banca fossero i tuoi. Capisco, quantunque molto difficilmente, che il signor Maller, che il signor Sanneo ci tratti con alterigia, ma non un capo corrispondente per quindici giorni.

      Certamente Ballina doveva essere una persona felice; aveva la beatitudine del suo molto lavoro meccanico tanto evidente, che persino Alfonso che volentieri non l’avrebbe ammesso, la comprese. Si diceva per vanteria capo dell’ufficio informazioni ma ne era l’unico componente. Lui domandava le informazioni e lui le copiava e le disponeva per ordine alfabetico in un grande armadio. Non teneva sospesi perché il suo lavoro non lo richiedeva e aveva l’abitudine di rimanere all’ufficio molte più ore di quanto fosse obbligato. Puliva bocchini d’osso di cui era provvisto in quantità, raddrizzava serrature, aguzzava rasoi, si faceva la barba in ufficio, quando se la faceva. Grande fumatore, aveva sempre nel cassetto un enorme quantità di tabacco in mucchio su un foglio di carta oleata; era una mescolanza di diverse specie e profumata da una radice che dava alla sua stanza un odore intenso di resina. Era la sua vera abitazione quella stanza; ci aveva introdotto delle comodità, tra altre inchiodato sulla sedia di paglia un pezzo di corame per sedere più comodo. Un cassetto del suo tavolo era destinato esclusivamente alle munizioni; del pane, talvolta del burro, spesso una bottiglia di birra, sempre una bottiglietta di zozza di cui usava offrire agli amici che venivano a fargli visita. Nell’altra sua abitazione non doveva stare troppo comodo. Raccontava che la stanza ove dormiva era tanto piccola che essendoci il letto e l’armadio, la sedia era di troppo e impediva l’ingresso. Non potendo farne a meno trovò un meccanismo ingegnoso:

      — Legai la sedia ad una corda che attaccai alla parte superiore della porta dopo di averla fatta passare per un gancio sporgente dal muro. Aprendosi la porta, la sedia sale e lascia l’ingresso libero; chiusa la porta ci si trova la sedia accanto e si può sedervisi senza muover passo.

      C’era forse dell’esagerazione in tale descrizione, ma di certo qualche cosa di vero. Un giorno dinanzi ad Alfonso consegnò ad un servo di piazza le chiavi della sua stanza incaricandolo di trovargli un nuovo alloggio e di trasportarvi i suoi pochi mobili. La sua abitazione, quella che aveva il suo affetto da femmina, era l’ufficio.

      Ballina con quel suo aspetto posato aveva dissipato una piccola sostanza che gli era stata affidata, come egli diceva, quando ancora non comprendeva il valore del denaro. Per un annetto di piaceri, ne aveva passati molti nella miseria e doveva passarne molti altri, «fino alla morte probabilmente» diceva, mentre se avesse avuto a disposizione qualche poco di denaro, ingegnoso come era avrebbe saputo aiutarsi. Così invece lavorò sempre per altri, in una fabbrica di bocchini, in altra di aceto, rivenditore ad un’esposizione, da un negoziante di bastoni e così via, sempre malissimo retribuito. Finalmente capitò da Maller ove si affezionò a quel lavoro tanto da rassegnarsi ad un emolumento misero assai.

      Il corrispondente francese, White, faceva di solito le spese della conversazione. Di famiglia inglese trapiantata in Francia, era stato allontanato da Parigi dai suoi parenti che temevano mangiasse tutta la sua sostanza al giuoco e nella vita comoda e signorile che amava di condurre. Era entrato alla banca quale corrispondente francese, da prima sottoposto a Sanneo, poi indipendente dopo una violenta baruffa con il suo capo. Maller riconobbe che quei due non potevano andare d’accordo e li divise non volendo costringere White a sottomettersi. White era protetto da un banchiere suo vecchio amico. Il lavoro di White verteva quasi del tutto su affari di borsa di cui pareva avesse una perfetta conoscenza. Era del resto un buon impiegato, rapido lavoratore quantunque disordinato. Sempre vestito elegantemente, aveva però una figura tozza, il passo incerto, la schiena teneva curva e gli dava un aspetto molto originale il vestito da lion con quella figura da vecchio. Il suo volto invece era regolarissimo; gli occhiali lo abbellivano accrescendo serietà alla sua faccia bruna. Nel luogo che per lui era di provincia, s’era appassionato per la caccia e la sua pelle portava le traccie delle molte ore passate al sole. Lavorava con grande rapidità e quando nulla aveva da fare, prendendosi una libertà che gli altri impiegati non avrebbero osato, non veniva affatto all’ufficio.

      Intelligentemente blagueur , la sua conversazione riusciva interessante; leggeva tutti i nuovi romanzi francesi e ne parlava da un certo punto di vista che dava originalità alle sue osservazioni. Non amava i romanzi più moderni; ne comprendeva, a quanto Alfonso poteva giudicare, tutti i meriti, ma non li amava sempre. Vi trovava una cosa di troppo o altra di troppo poco e finiva col dirne male. Offendeva il feticismo di Alfonso parlando con famigliarità sprezzante degli scrittori più celebri. «Quegli dava il titolo al suo romanzo per attirare gli acquirenti, l’altro scriveva porcherie al medesimo scopo, il terzo che si diceva buono, scrittore che veniva letto dalle signorine, era un birbante che legnava sua madre.»

      Offerse ad Alfonso dei libri in prestito, e, dimenticandosi sempre di portarglieli, una sera lo condusse seco a prenderli. Abitava nel centro della città in un primo piano spazioso. Attraversata una piccola anticamera, entrarono in uno stanzone non ammobigliato che da un tavolo e alcune sedie; le finestre erano senza coltrinaggi. In tanta luce e per tanto spazio la stanza rimaneva troppo nuda.

      Vestita di un accappatoio color rosa, bionda, dai tratti troppo regolari, una donna era seduta accanto ad una finestra lavorando al telaio.

      — Ma femme — disse White presentando, e poi: — Mon ami Monsieur Nitti.

      La signora s’era alzata a stento, impedita dal panno che pendeva dal telaio. I due presentati si guardarono, lui mormorando una parola di complimento, ella proprio attendendo ch’egli se ne andasse per rimettersi al lavoro. White s’era precipitato in una stanza vicina e Alfonso, seccato di trovarsi muto con una muta, dopo un inchino leggermente corrisposto lo seguì.

      La stanza da letto aveva i due letti uno accanto all’altro, un armadio e alcune sedie. I libri di White, una ventina, giacevano in disordine sul pavimento, sotto all’unica finestra, anche questa mancante di coltrinaggi. Non un quadro alle pareti; nulla di più del necessario; sembravano due stanze ammobigliate per albergarci per qualche tempo, non un’abitazione.

      Uscì con White, e con la donna di costui si ripeté la medesima scena. Ella si rialzò colla medesima premura, la faccia tranquilla per indifferenza, e il panno una seconda volta minacciò di farla cadere.

      Alfonso chiese con sorpresa a White:

      — Da quando è ammogliato?

      White fu preso da una

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