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Maller stesso. È ben vero però che se poco dopo Sanneo apponendo il suo segno ad una lettera, faceva col capo un cenno d’approvazione, Alfonso, per quanto grande fosse stata la sua stanchezza, riprendeva di gran lena il suo lavoro.

      Stanchezza? Somigliava meglio a nausea. Lentamente il suo lavoro di giorno in giorno aumentava, ma in qualità di poco o nulla mutava. In un’intiera giornata egli aveva da costruire uno o due periodi; aveva invece da copiare innumerevoli cifre, ripetere innumerevoli volte la medesima frase. Verso sera la mano, l’unica parte del suo corpo veramente stanca, si fermava, l’attenzione non stimolata si distraeva e qualche volta doveva gettare la penna e lasciare il lavoro, per una nausea da persona che ha preso di troppo di un solo cibo. Non era mai a giorno con i suoi lavori e al suo malessere si aggiungeva l’inquietudine.

      White gli aveva detto che tutte le lettere di pura scritturazione potevano venir trattenute parecchi giorni, anche settimane, senza risposta, e questa facoltà gli aveva alleggerito di molto il lavoro delle prime giornate: ben presto però, aumentando i sospesi, il lavoro ne venne complicato, perché molte lettere appena arrivate trovavano altre dello stesso cliente che attendevano la risposta e Alfonso con la poca attenzione che sapeva dare al suo lavoro e per una memoria renitente ai nomi, non sapeva che ci fossero. Alla sera gli venivano restituite da Sanneo delle lettere con l’annotazione: «E la lettera arrivata precedentemente? N.B. Signor Nitti». Il povero peccatore se ne andava da Sanneo a udire una grande predica sul disordine, la quale non lo migliorava perché non era la buona volontà che gli mancasse, era la capacità; il suo era un difetto organico.

      Quando ancora lo spingeva il primo zelo per il nuovo lavoro, la noia era minore. L’attenzione che doveva avere continua, per finire il maggior numero di lettere nel minor tempo possibile, l’intensità stessa del lavoro lo distraeva, lo stancava come se fosse stato lavoro meno meccanico. Ma questo primo zelo non rinasceva che per circostanze indipendenti dalla sua volontà, e il suo lavoro procedeva tanto lento che una buona parte della giornata la passava tra la lettura delle lettere arrivate per cercarvi quelle che poteva mettere da parte e la disamina delle carte che nei giorni precedenti aveva lasciato sul tavolo.

      Sanneo si diceva sorpreso che a un giovane che dimostrava desiderio di lavorare non riuscisse di fare di più; piombava in stanza di Alfonso credendo di sorprenderlo alla lettura di qualche giornale o uscito a chiacchierare con altri impiegati e lo trovava sempre al suo posto con la penna in mano e gli occhi fissi sulla carta. Per indulgenza gli diminuì anche il lavoro, ma le quindici o venti letterine che gli dava da fare, alla sera non erano mai fatte tutte e bastavano a mantenere il deposito di sospesi.

      Alfonso si figurava che il malessere generale che provava dipendesse dal bisogno che aveva il suo organismo di stancarsi, di esaurirsi. Si era anche fatto di quest’organismo una concezione plastica che riformava ad ogni novella sensazione. Alla sera, dopo una giornata passata in mezzo alle cifre o correndo per la banca oppure con la penna sulla carta e il pensiero altrove, immaginava che nel suo corpo si movesse una materia abbondante attraverso a vasi molli incapaci di resistere o di regolare. Se poteva, faceva allora delle grandi passeggiate e il malessere scompariva. I polmoni gli si allargavano, sentiva le giunture più flessibili, il corpo gli obbediva più pronto ed egli si figurava che quella materia fosse stata assorbita o regolata e che aiutasse invece d’impedire. Se si metteva a studiare, deposto il libro, si sentiva la mente stanca, una strana sensazione alla fronte come se il volume di dentro avesse voluto ingrossare, allargare il contenente. Si sentiva calmo precisamente come se si fosse stancato correndo; vedeva lucidamente e i sogni o erano voluti o mancavano. Ben presto anche il tempo dedicato alle passeggiate venne assorbito dallo studio; occorreva meno tempo per calmarsi con lo studio che con le corse. Una sola ora passata su qualche difficile opera critica lo quietava per un’intiera giornata. Inoltre, in poco tempo, gli era venuta l’ambizione e lo studio era divenuto il mezzo a soddisfarla. Le cieche obbedienze a Sanneo, le sgridate che giornalmente gli toccava sopportare, lo avvilivano; lo studio era una reazione a quest’avvilimento. Dinanzi ad un libro pensato faceva sogni da megalomane, e non per la natura del suo cervello, ma in seguito alle circostanze; si trovava ad un estremo, si sognava nell’altro.

      Ogni istante di tempo fuori di ufficio od anche all’ufficio ove in un ripostiglio teneva alcuni libri, lo dedicava alla lettura. Erano in generale letture serie di critica o di filosofia, perché di poesia e di arte stancavano meno. Scriveva, ma poco; il suo stile, poco solido ancora, la parola impropria che diceva di più o di meno e che non colpiva mai il centro, non lo soddisfaceva. Credeva che lo studio lo avrebbe migliorato. Non aveva fretta, e quel poco che faceva era a compimento di un orario che s’era prefisso per il suo lavoro volontario. Dopo di essersi stancato alla banca e alla biblioteca, gettava in carta qualche concettino, qualche espansione romantica con se stesso e che nessun altro riceveva. Di notevole in queste espansioni vi era che il giovinetto sembrava soffrisse di certo male mondiale; alle sue reali sofferenze, alla nostalgia da cui ancora era travagliato, in queste espansioni non era dato luogo. Teneva questi scritti in conto di annotazioni rudimentali di cui voleva servirsi in un lontano avvenire per opere maggiori, drammi, romanzi e peggio.

      Non aveva ancora letto interamente un classico italiano e conosceva storie letterarie e studii critici a bizzeffe; più tardi si gettò alla lettura di opere di filosofia tedesca tradotte in francese.

      Scoperse la biblioteca civica e quei secoli di cultura messi a sua disposizione, gli permisero di risparmiare il suo magro borsellino. Con le sue ore fisse, la biblioteca lo legava, apportava nei suoi studii la regolarità ch’egli desiderava. La frequentava assiduamente anche perché la sua stanza in casa Lanucci era poco adatta a studiarci. Piccola, a mezzo occupata dal letto, di rado visitata dal sole, era disaggradevole e non era facile pensare su un tavolinetto rotondo di cui le quattro gambe non toccavano mai contemporaneamente il pavimento.

      Quando gli era riuscito di vivere la giornata secondo programma, andava alla banca il giorno appresso ancora spossato e lavorava peggio del solito. I sospesi divenivano maggiori e alla sera si trovava dinanzi un fascio enorme di carte giunte da tutte le città d’Italia; a lui sembrava che tutto il mondo congiurasse contro di lui e gl’imponesse quel lavoro.

      In biblioteca fece poche conoscenze. Entrava nella lunga sala di lettura tutta occupata da tavoli disposti parallelamente, occupava un posto qualunque e per qualche tempo con la testa fra le mani era tanto assorto nella lettura da non vedere neppure chi accanto a lui sedesse. Dopo un’ora al più, la lettura affaticante gli ripugnava, per qualche tempo ancora vi si costringeva e cessava quando la mente più non afferrava la parola che l’occhio vedeva; usciva non appena deposto il libro e dopo quell’ora passata con gl’idealisti tedeschi, gli sembrava sulla via che le cose lo salutassero.

      R

      Alfonso era venuto in città apportandovi un grande disprezzo per i suoi abitatori; per lui essere cittadino equivaleva ad essere fisicamente debole e moralmente rilasciato, e disprezzava quelle ch’egli riteneva fossero le loro abitudini sessuali, l’amore alla donna in genere e la facilità dell’amore. Credeva di non poter somigliare loro e si sentiva ed era per allora molto differente. Non aveva conosciuto la sensualità che nell’esaltazione del sentimento. La donna era per lui la dolce compagna dell’uomo nata piuttosto per essere adorata che abbracciata, e nella solitudine del suo villaggio, ove il suo organismo era giunto a maturità, ebbe l’intenzione di serbarsi puro per porre ai piedi di una dea tutto se stesso. In città quest’ideale perdette ben presto qualunque influenza sulla sua vita per non vivere che nel suo proposito, un proposito vago che non aveva forza che quando non c’era bisogno di lotta.

      Ma come teoria ci teneva anche dopo di essersi accorto che appariva ridicola agli occhi di coloro cui la esplicava. Non sapeva come supplirvi; abbandonandola avrebbe creato un vuoto nella sua vita. Non la enunciò più, così che Miceni a torto si vantava di aver operato una conversione.

      A ventidue anni i suoi sensi avevano la delicatezza e la debolezza dell’adolescenza. Aveva dei desideri ch’egli sapeva reprimere soltanto con grandi sofferenze. A provocare questi desideri, dura irrisione al suo sogno, bastava una gonnella o anche il pensarci, ed erano forti abbastanza per toglierlo improvvisamente alla lettura quando vi si era messo e farlo correre per le vie, spinto da un’agitazione

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