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gentile figura di donna ammirandola timido e vergognoso. Tardi gli venne il pensiero di spingere oltre le cose. Fino ad allora aveva atteso che il suo ideale venisse a lui.

      Una sera, correndo, si trovò dietro ad una donna che passando lo aveva guardato. Vestita di nero, teneva molto alta la sottana e lasciava vedere un piedino calzato in eleganti scarpette lucide, una calza nera, l’attaccatura del piede gentilissima per un corpo agile ma non misero. Alfonso vide ancora il collo, dalla pelle bianchissima; nulla della faccia.

      Risolutamente la seguì, la sorpassò, poi l’attese come un cagnolino. La signora a lui pareva ridesse guardandolo alla sfuggita e, incoraggiato, egli si propose di avvicinarla. Era la prima volta ch’egli si trovasse in tale imbarazzo. Ebbe delle esitazioni che lo costrinsero poi ad accelerare il passo. Ella attraversò il Corso e imboccò via Cavana; doveva passare dinanzi alla biblioteca. — Alla peggio andrò in biblioteca, — pensò Alfonso per dare alla sua passeggiata una meta sicura.

      La precedette e si fermò alla porta della biblioteca. Ella passò mentre la luce di un fanale faceva risaltare la bianchezza del collo e brillare la lacca della scarpetta, ma non lo guardò, ciò che ad Alfonso levò per qualche tempo la voglia di seguirla. Lentamente ella salì l’erta della via dei SS. Martiri lungo il Tribunale mentre appoggiato ad un paracarro egli si contentava di seguirla con l’occhio. Poi, quando ella aveva quasi terminata l’erta, egli si avanzò sino al Tribunale. Vide la figurina prospettarsi sul cielo, le curve precise come se le avesse viste più da vicino. Ancora un istante di esitazione e l’avrebbe perduta di vista; non v’era tempo a riflettere e il suo desiderio parlò chiaro ed imperioso spingendolo ad una corsa sfrenata in modo che la raggiunse prima ch’ella si trovasse sul piano. Era agitato, ma tanto stanco ch’era là là per lasciare la risoluzione presa da poco. In mente la stessa idea che lo aveva fatto correre dal Tribunale in su, le si avvicinò: — Signora... — le disse e levò il cappello, ma la respirazione divenuta più affannosa dacché s’era fermato, gl’impedì di continuare. Un occhio azzurro lo guardò con freddezza glaciale e trovandosi poco preparato per parlare avendo pensato solo a correre, semplicemente si fece in parte per lasciarla passare, e pigliò fiato, lieto come se avesse temuto di venirne impedito. I desideri che lo coglievano con tanta rapidità altrettanto rapidamente lo abbandonavano; per dimenticarli gli bastava di venir scosso da un timore o da una fatica.

      Per certo tempo ogni sera correva dietro a qualche donna, ma soltanto a quelle ben vestite, perché l’oggetto dei suoi sogni era tutt’altro che pezzente e ad ogni corsa poteva illudersi di trovarlo. Questi conati all’amore avevano sempre il medesimo risultato. La sua timidezza vinceva i propositi fatti con la maggior risolutezza e bastava un gesto di ripulsa dell’aggredita od anche meno, lo sguardo indiscreto di qualche passante, per farlo desistere.

      Dovette però fare l’esperienza che non era soltanto la sua timidezza che gl’impediva l’amore, ma i suoi dubbi, le sue esitazioni, e persino quel suo ideale portato dal villaggio e cacciato in un canto ma non scomparso. Esso capitava fuori tutt’ad un tratto quando Alfonso lo aveva del tutto dimenticato e gli faceva disprezzare col suo splendore quella miserabile realtà che gli era concessa.

      Ebbe qualche avventura d’amore, ma non appena iniziata la soffocava con abbandoni bruschi per un risveglio della sua coscienza morale od anche semplicemente per non aver da sacrificare all’amore le ore di studio.

      Rammentò per parecchi anni con rimpianto Maria, una giovinetta dai capelli esattamente biondi, il colore puro dell’oro, una figurina diritta che non pareva accorgersi del peso del tanto metallo che portava in testa. L’affrontò una sera e audacissimo come sono tutti i timidi quando si costringono al coraggio, le fece subito una dichiarazione d’amore. Maria ch’era, a quanto essa gli disse, dama di compagnia presso una vecchia signora, doveva trovarsi in uno stato d’animo simile al suo, perché, con sua grande sorpresa, ella accolse la sua dichiarazione ch’era sincera e parolaia, uno sfogo di sentimento accumulato, con serietà e con qualche commozione. Doveva partire pochi giorni appresso, ma prima, in seguito alle sue preghiere insistenti, gli accordò un abboccamento a cui egli non andò. Le ore di studio serali erano divenute nel frattempo la cosa più importante della sua giornata. L’abboccamento era stato fissato per quelle ore e all’ultimo momento egli aveva deciso di non andarci. Ebbe poi un cocente rimorso della sua azione, ma non poté ripararvi perché non la rivide mai più.

      Non perciò rinunciò a quelle sue corse dietro alle gonnelle. Così correndo sognava meglio. Si vergognava di tale abitudine e sofferse molto un giorno che la vide indovinata da Gustavo.

      Fino ad allora era stato lui il maestro di costui. Volendo essere utile alla famiglia Lanucci, egli aveva cercato di ricondurre il giovinetto sulla buona via. L’altro stava ad ascoltare seriamente gl’insegnamenti di Alfonso ma vi opponeva le sue massime semplici e sicure: — Il lavoro in genere era duro e mai retribuito abbastanza; preferiva perciò di vivere povero e libero che di poco più ricco e schiavo.

      Tutt’ad un tratto Alfonso si trovò ad essere divenuto scolaro e l’altro maestro:

      — Che gusto ci trovi? — chiese Gustavo molto sorpreso facendogli interrompere una corsa dietro ad una donna.

      Era volgo lui, ma parlava con calma delle cose che profondamente commovevano e turbavano Alfonso, e questi lo invidiò. Egli più adulto e più intelligente, sotto questo rapporto importantissimo gli era inferiore. La sua forza disordinata era malattia e debolezza, mentre nella faccia anemica e magra di Gustavo brillava la salute, la pace.

      Eppure non si sentiva infelice! Trovava la sua felicità da una parte nello studio accanito stesso, dall’altra nella sua ambizione cresciuta gigante, la fame di gloria. Sentiva di essere superiore agli altri e se ancora non sapeva come si sarebbe guadagnata questa gloria, lo afforzava nelle sue speranze il suo amore allo studio ch’era divenuto passione. Completava le ore di studio alla biblioteca con altrettante in casa e non gli bastava ancora. Lo studio invadeva le ore di ufficio, del pranzo e della cena e andava rubandogli ogni giorno parecchie ore di sonno.

      In un’epoca di maggiore attività propose a Lucia di darle delle lezioni di lingua italiana. Non doveva essere disaggradevole d’imparare insegnando.

      La proposta fece andare in visibilio i vecchi Lanucci e il padre volle che anche Gustavo partecipasse a quelle lezioni. Persino costui s’infiammò. Volle dimostrare una grande diligenza. Si fece dettare da Alfonso le definizioni delle parti del discorso e intendeva di studiarle a mente perché per mancanza di preparazione e non d’intelligenza non giungeva a comprenderle. Poi non si fece più vedere e soltanto le due prime volte si rammentò di scusarsi, quelle però con tutta buona grazia e sempre asserendo che la prima lezione lo aveva grandemente divertito.

      La signora Lanucci formalmente consegnò Lucia ad Alfonso. Le prime lezioni vennero date in tinello, le altre in stanza di Alfonso, perché in tinello a certe ore non vi era quiete bastante.

      Alfonso prese il suo compito sul serio e l’entusiasmo della signora Lanucci finì col far credere anche a lui di usare un benefizio a Lucia dandole i suoi insegnamenti.

      Avevano principiato col Puoti, ma ben presto mutarono programma, ambedue mortalmente annoiati. Lucia non aveva capito niente e Alfonso lo sapeva.

      Da parecchio tempo Alfonso usava di leggere i sinonimi del Tommaseo. Risolse di far studiare a Lucia quelli in luogo della grammatica.

      — Almeno non si ha da fare con un sistema — le disse. — Per quanto lo si sia, non ci si accorge mai di essere troppo indietro perché non c’è addentellato, ogni pagina e ogni articolo essendo parti che stanno da sé. Si studiano queste parti e un bel giorno si scopre con sorpresa di aver edificato un edifizio, conquistata la lingua italiana.

      Quello che maggiormente amava in queste lezioni si era di tener discorsi d’introduzione. Poi non solo l’ignoranza di Lucia, ma i dettagli dell’insegnamento lo annoiavano e lo stancavano. Lucia per le due prime lezioni si fece credere capace e intelligente perché comprese le non poche sottili differenze fra abbandonare e lasciare . Portò seco il librone e imparò a mente quell’articolo. Alla terza lezione, vedendo che la fanciulla lo aveva seguito con tanta facilità sino a quel punto, Alfonso dichiarò che si

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