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di gente che si contentava del poco e più che ai conforti e godimenti della vita badava ai guadagni: gente antica, se di buona stirpe, che passava la vita uccellando e cacciando piuttosto in contado, nelle proprie tenute, che in città; gente nuova che nelle arti e nella mercatanzia cercava far la roba. L'avolo di Messer Lapo da Castiglionchio, che avea sua abitazione in sulla porta di Messer Riccardo da Quona, là dalle Colonnine, usava far serrare la porta della città a una vecchia serva, buona e lealissima, che glie ne riponeva le chiavi nella sua camera6.

      Firenze intanto cresceva man mano che aumentava la proprietà de' cittadini. Le vecchie case di legno o coi tetti di paglia eran spesso distrutte dal fuoco. Tutta la città si commoveva e tutta la gente, ad ogni incendio che divampasse, era sotto l'arme e in gran guardia7. Anche la Signoria, per abbattere con minor spesa le case dei condannati, usava darle alle fiamme e poi pagare i danni degl'incendi che si propagavano8.

      E come incendi avvampavano le passioni: le vendette, le risse, le turbolenze tingevan di sangue le vie; e le paci tra gli avversi consorti si celebravano con feste e conviti. Il Comune “fiero e in caldo e signoria„ raddoppiava le forze; e debellati i nemici esterni, “i mercanti della città vincitrice guidavano, nuova maniera di trionfo, i loro muli, carichi de' panni di Calimala e delle seterie di Por Santa Maria, attraverso a' monti e a' piani poc'anzi battuti dalle cavalcate e da' soldati de' loro eserciti; portavano l'oro e l'ingegno fiorentino nelle città, sotto alle cui mura avevano ondeggiato, fra le armi, le libere insegne di questo popolo grande„9.

      II

      Mercato vecchio era il cuor di Firenze; e pareva allora la più bella piazza del mondo10. Chi ne legga le lodi nel capitolo di Antonio Pucci, chi ne cerchi i fatti di cronaca quotidiana nelle novelle di Franco Sacchetti, può avere un'imagine di quella vita cittadina che si contentava di così piccola scena. Quello, il vero emporio d'ogni commercio, il ritrovo de' bottegai, de' commercianti, degli oziosi, de' giuocatori, de' villani, de' medici, degli speziali, de' malandrini, delle fantesche, de' gentiluomini, de' poveri, delle trecche, dei rivenduglioli, delle brigate allegre e spendereccie. Quivi robe d'ogni genere e sorte: le carni fresche, le frutta, i formaggi, i camangiari, l'uccellame, i pannilini, la cacciagione, i fiori, le stoviglie, le botti, la mobilia usata. I monelli, anche allora terribili, vi stanno come in casa loro: i grossi topi vi fan carnevale; la gente vi trae da ogni parte. Ogni giorno si leva qualche romore: un cavallaccio s'imbizzarrisce per una ronzina, e tutti gridando accorr'uomo, la Piazza de' Signori s'empie di fuggiaschi, serrasi il Palagio, armasi la famiglia, anche quella del Capitano e dell'Esecutore, e questi per la paura nascondesi sotto il letto, e, quetato il tumulto, n'esce fuori coperto di ragnateli; due muli beccati da un corvo cominciano a tempestare; saltan sui deschi, si serrano le botteghe e nasce grande contesa fra i lanaiuoli e i beccai per i danni fatti da quelle bestie furiose.

      Ma talvolta accadono anche serie questioni: i barattieri, tenitori di giuoco, vengono alle mani:

      E vedesi chi perde con gran soffi

      Bestemmiar, con la mano alla mascella

      E ricevere e dar di molti ingoffi.

      Ed allor vi si fa con le coltella,

      Ed uccide l'un l'altro, e tutta quanta

      Si turba allora quella piazza bella.

      Si rinnova la scena raffigurata in un affresco del monastero di Lecceto, vicino a Siena. I tre dadi caddero sulla tavola in modo che un de' giuocatori è perdente. Egli sorge in piedi, esacerbato da quel colpo dell'avversa fortuna, e afferra il vincitore per la gola, stendendo il braccio. E l'altro, fattosi pallido per l'ira e lo spavento, si cerca indosso l'arme vendicatrice. La bestemmia prorompe sui labbri de' contendenti; le grida degli astanti, delle donne, de' fanciulli echeggian paurose: “Accorr'uomo, accorr'uomo!„ – La folla indietreggia sbigottita, e quando l'Esecutore arriva – sempre tardo – co' suoi famigli, la vittima è a terra, distesa in un lago di sangue.

      III

      Questi i drammi, i “fatti diversi„ d'allora, che turbavano la pace della semplice vita di quei nostri bisavoli. Perchè, la novella borghese, che tenea l'ufficio delle odierne gazzette, rare volte ci narra queste scene crudeli. Piuttosto si piace di raccontarci le beffe, le burle, onde allegravasi il popolo motteggevole; perenne argomento di queti ragionari, al canto del fuoco, presso gli alari dei grandi camini, sotto la cui cappa annerita raccoglievansi le famiglie, prima che sonasse l'ora di spegnere i lumi, quando chi andava a letto “il sezzaio11 erasi accertato fossero ben turate le botti„ e “l'uscio e le finestre serrate„.

      Non parea vero di ridere, di scordare le paure dell'oltremondano, onde gli spiriti erano stati depressi: e già l'incredulità de' nuovi tempi cominciava a metter fuori le corna, burlandosi de' cherici, e un tantino de' miracoli e di molte altre imposture. I motteggiatori, i burlevoli, che d'altrui si prendevan sollazzo e cercavano gabbare il prossimo e il mondo, si dicevano “nuovi uomini„ e “nuove cose„ le loro malizie. I deschi e le botteghe di Mercato Vecchio, i fondachi di Calimala, le loggie che sorgevano allora presso i palagi, dove la gente stava sui banchi a conversare, echeggiavano di fresche risate argentine; cui rispondevano i crocchi femminili, bisbiglianti sulle porte di casa. Gli artisti, o come li chiamavan gli artefici, erano i più sottili architettori di coteste burle ingegnose, immaginate fra una pennellata e un colpo di stecca. E ne durò la memoria molti anni, tanto che il Vasari parecchie ne raccolse nelle sue Vite, di quelle che i novellieri non avevan consegnate alle lor cronache cittadine.

      “Sempre fu che tra' dipintori si son trovati di nuovi uomeni„12 scrive il Sacchetti; e Bonamico Buffalmacco immortalato nel Decameron, e Bartolo Gioggi, e Bruno di Giovanni, e Filippo di Ser Brunellesco e Paolo Uccello e Donatello, ci fan tornare a mente le burle fatte a Calandrino, al Grasso legnaiuolo, e a tanti altri che furon vittime di così spietati begliumori13. Ma la voglia matta di ridere e sollazzarsi, s'appiccicava anche alla gente più grave; e dalle botteghe degli artefici entrava in quelle degli speziali, e attaccavasi a' medici, a' giudici, a' procuratori, e saliva in Palagio a rallegrare i Priori della malinconia di star chiusi, lontani dalla moglie e dalla famiglia. – Semplici uomini e semplici costumi, che ancor sapevano della rozzezza antica: la Signoria dormiva in una camera sola, e ciò era incentivo e occasione agli scherzi14; e il proposto dei Priori poteva andare in persona alla cucina a cuocersi sulla brace una fetta di carne15. La burla, lo scherzo rasentava talora la truffa; ma una buona risata dava torto a chi aveva avuto colle beffe anche il danno, e tutti pari. Perchè a quegli anni, quand'ognuno pensava a sè, a' casi proprii, al proprio interesse, la gente non aveva pietà o compassione pei gonzi. Le più sottili malizie erano anche permesse ai mercanti, e quei di Firenze eran famosi per la gran furberia.

      Racconta il Sacchetti quel che intervenne ad un Friulano, che aveva nome Soccebonel, e che andò a comprare panno da un di costoro. Ne misuran quattro canne, e il fiorentino glie ne mangia una mezza. Poi, per ricoprire l'inganno, gli dice: “Vuo' tu far bene? attuffalo in una bigoncia d'acqua, e lascialo stare tutta la notte, sì che bea bene, e vedrai poi panno ch'el fia.„ – Soccebonel così fa, e poi manda il panno al cimatore. “Soccebonel va per esso e dice: Che dei tu avere? Dice il cimatore: E' mi par nove braccia: da' nove soldi. Dice costui: Come nove braccia? oimè! che di' tu?„ Lo rimisurano; ma il panno non cresce. Soccebonel va dal ritagliatore, va di qua, va di là. E uno gli dice: “Questi panni fiorentini non tornan nulla all'acqua.„ “Uno comprò un braccio di panno fiorentino, e la sera l'attuffò, come tu facesti questo, in un bigonciuolo d'acqua, e lasciovvelo stare tutta notte; la mattina, lo trovò tanto rientrato, che non c'era più nulla„16.

      IV

      Ma i codici de' mercanti, chi li cerchi e li legga tra

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<p>6</p>

Lapo da Castiglionchio.

<p>7</p>

Villani, X, 208.

<p>8</p>

Perrens, Histoire de Florence, III, 408.

<p>9</p>

Del Lungo, I, 96.

<p>10</p>

Pucci, Le proprietà di Mercato Vecchio.

<p>11</p>

Paolo di Ser Pace da Certaldo, § 23.

<p>12</p>

Sacchetti, n. 161.

<p>13</p>

Capricci e anneddoti di artisti, descritti da Giorgio Vasari. Firenze, Barbèra, 1878, in-64.

<p>14</p>

Sacchetti, nov. 83, fine.

<p>15</p>

Ivi, 108.

<p>16</p>

Sacchetti, n. 92.