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filiale di Lorenzo. Le lettere di Clarice Orsini e del Poliziano, del Pulci e di tanti altri mostrano l'amor suo pei figli, la sua bonaria e fedele affezione agli amici, dai quali fu idolatrato, e, quanto alla moglie, lasciando stare se il mi fu data dei Ricordi di Lorenzo sia la frase indifferente, che significa il fidanzamento o che la sposa non fu di sua scelta, certo è che i fatti e i documenti dimostrano rapporti non mai interrotti di affetto e di stima. Intercedendo per chi l'ha offeso: “non fareste, essa gli scrive, secondo la natura vostra a non gli perdonare„; parole, che fanno il maggior onore ad essa ed a lui e scritte l'anno stesso della congiura de' Pazzi, quando l'animo di Lorenzo dovea esser meno che mai disposto ad indulgenza. E quando si leggono nella lettera di Matteo Franco, che descrive il ritorno di Clarice dal Bagno a Morba, le parole, ch'essa risponde ai poveri terrazzani di Colle, i quali la supplicano di raccomandarli a Lorenzo, si vede chiaro quant'essa era addentro nel segreto della sua politica e con che arte gentile sapea all'occasione farsene strumento.

      Se non avessi già troppo abusato della vostra cortese attenzione, mi sarebbe dunque facile dimostrarvi coi documenti alla mano che Lorenzo fu buon figlio, buon padre, marito convenientissimo, nella stessa guisa che potrei e dovrei mostrarvi, che come critico, precorre studi moderni, che come poeta, sorpassa forse il Poliziano ed il Pulci per osservazione della realtà e per sentimento vivo e immediato della natura esteriore, che, come umanista, tempera gli eccessi della scuola col culto della lingua volgare, di cui è restitutore e mantenitore, che, come filosofo finalmente, modera l'irreligione del tempo col teismo neoplatonico, il maggior tentativo di accordo fra il cristianesimo e la filosofia, quantunque non potesse di certo parer sufficiente al Savonarola.

      Se come uomo Lorenzo de' Medici deve dirsi buono, se come letterato e filosofo superiore al suo tempo (il quale tuttavia non ha nel suo complesso chi lo rappresenti meglio e più intieramente di lui), forsechè come politico è inferiore agli altri signori e principi del tempo suo? Il sistema d'equilibrio dei quattro maggiori Stati d'Italia, quale lo praticò Lorenzo al disopra della scellerata politica degli altri principi, compresi i Papi, al disopra dei pregiudizi Guelfi Fiorentini, al disopra d'ogni interesse di famiglia, perchè nella politica estera egli non ha, nè può avere, notate bene, appunto perchè non principe, altro pensiero che della potenza di Firenze, lo rende indubitabilmente superiore a tutti gli statisti, non speculativi, ma operanti del suo tempo. Ed ebbe pure il presentimento del donde potea venire il pericolo futuro, poichè quando Luigi XI gli profferse aiuto contro il Papa ed il Re di Napoli: “io non posso, disse, anteporre il mio particolare vantaggio al pericolo di tutta Italia; volesse Iddio che ai Re di Francia non venisse mai in mente di sperimentare le proprie forze in questo paese. Quando ciò accada, l'Italia sarà perduta!„ E lo fu in realtà, due anni dopo appena ch'egli era morto. Non possiamo dire, ch'egli avrebbe impedita la catastrofe, ma ben possiamo esser certi che la sua condotta non sarebbe stata così pazza ed improvvida, come fu quella di Piero, suo figlio.

      Moriva Lorenzo l'8 aprile 1492 nella sua villa di Careggi fra il dolore disperato dei congiunti e degli amici; moriva fra il lutto e le lagrime di tutto un popolo; moriva nel colmo della potenza e della gloria. Ciò non potè tollerare l'intolleranza Piagnona e creò la leggenda del Savonarola che all'ultim'ora gli nega l'assoluzione e lo lascia morire fra i rimorsi. Nè basta. Ci voleva un po' di delitto per colorir meglio il quadro e si raccontò, e si cantò anche in versi elegiaci, che il medico Pier Leoni di Spoleto fu gettato in un pozzo per ordine del primogenito di Lorenzo. Quanto alla prima parte della leggenda, essa, come questione storica, s'è ingrossata, e allorchè un Villari le presta fede, un Ranke non osava più negarla addirittura, un Reumont la giudicava per lo meno incerta, non oserei io di mescolarmi in tal disputa. Debbo però al mio gentile uditorio la mia opinione, ed è che la lettera del Poliziano a Jacopo Antiquario, in cui il Savonarola (ciò che s'accorda anche col tempo) si mostra solo uomo di chiesa e ammonisce e benedice (non confessa ed assolve) in articulo mortis il peccatore pentito, mi pare a tutt'oggi il solo documento attendibile e che tutte le altre parole messe dalla leggenda in bocca al Savonarola e a Lorenzo mi sembrano un anacronismo e un assurdo. Quanto al medico, la lettera, ora pubblicata, di Bartolommeo Dei toglie ogni dubbio. Impazzò e si suicidò! Meno male, perchè il terribile Perrens aveva già scartata l'ipotesi del suicidio, dicendo: “Les medécins tuent, ne se tuent pas!

      Ed ora concludiamo. Chi dalle mie parole argomentasse che ho voluto fare non la storia, ma l'apologia di Lorenzo il Magnifico, avrebbe gran torto. Nè l'una, nè l'altra, se mai; non la storia, perchè in sì piccolo quadro non si fa star dentro una così grande figura; non l'apologia, perchè non credo che Lorenzo n'abbia bisogno. Volli esporre il concetto, che mi sono formato della storia di Lorenzo in relazione a quella di Firenze e d'Italia, e tale concetto posso riassumerlo così.

      Nella storia di Firenze a me pare di scorgere una continuità nelle parti, che si contendono il predominio cittadino ed un perpetuo ricorso delle stesse forme, che, spogliate di quanto hanno d'accidentale e d'occasionale, accennano fin dai più antichi tempi al dove vanno in ultimo a terminare tutte le lotte fiorentine, al predominio cioè d'una consorteria, d'una famiglia, d'un uomo. Furono i Medici! Potevano essere gli Albizzi, gli Alberti, gli Strozzi, ma a questi non sarebbe probabilmente riescito di dare alla loro signoria quel carattere, che poterono darle i Medici, di pura preminenza d'un cittadino in una repubblica. Le lotte delle fazioni si presentano subito in Firenze come contrasto di due famiglie. Queste aggruppano intorno a sè gli elementi, che sono proprii della lotta comunale in tutta Italia, elementi politici, guelfismo e ghibellinismo, elementi sociali, aristocrazia e democrazia. Il Comune è da prima fuori del contrasto, poi naturalmente, e presto, diviene l'oggetto del contrasto medesimo e gli dà la forma esteriore, mentre l'impulso segreto, l'impulso, che è l'anima vera del contrasto, è sempre d'una famiglia e della clientela, che le sta d'attorno. Se così non fosse, quando il fine, per cui una fazione si muove, è ottenuto, si vedrebbe cessare questo moto, per poi ricominciarne un altro. Invece, siano guelfi e ghibellini, che lottano, grandi e popolo, arti maggiori e arti minori, appena una fazione vince, si divide in sè stessa e la lotta continua sempre. È per questo, io credo, che il Villani, il Compagni, tutti i cronisti, non parlano mai dei principii o dei fini politici, pei quali una fazione s'è mossa, bensì dei pregi o difetti della famiglia o dell'uomo, che alla fazione dà nome, perchè questo è per essi importante; il resto accessorio. Talvolta pare che si mira a slargare in senso democratico l'ordinamento del Comune. Ma appena s'è vinto, la famiglia, la setta (come la chiamano i Fiorentini nella seconda metà del trecento), cerca sfruttare la vittoria a suo pro. Questo tentativo costante non riesce ad altri; riesce ai Medici, perchè Cosimo sa far apparire la vittoria, vittoria sua, non della parte, e non ha quindi da sconvolgere l'ordinamento comunale per soddisfarla; frena insomma subito egli stesso la fazione, con cui ha vinto gli Albizzi, e ciò tanto più facilmente, in quanto non è fazion vera la sua, non una classe, non un'arte contro l'altra, bensì un'accozzaglia d'amici e di malcontenti, che non spera che in lui, ond'egli detta legge, non la riceve, e la vittoria contro la minacciante tirannide degli Albizzi gli fa anzi quasi un obbligo, una necessità di rispettare gli ordinamenti comunali, pur piegandoli alla volontà sua, che è la tradizione di tutte le famiglie, le quali hanno capitanate le fazioni fiorentine e con esse sono pervenute più o meno lungamente al governo del Comune. Sempre le stesse arti, sempre gli stessi mezzi, all'ombra sempre delle stesse instituzioni! Finchè l'elemento di famiglia è costretto a tenersi celato dietro l'elemento politico e sociale, la signoria non può fondarsi. Quando per l'inclinazione generale dei Comuni italiani a signoria, può mostrarsi a viso aperto, allora la signoria si fonda, ma col carattere speciale delle passeggere signorie fiorentine, cioè tirando a sè, non distruggendo, le instituzioni del Comune. Lorenzo restituisce e conserva il tipo di Cosimo, ma da Cosimo a Lorenzo la signoria Medicea fa un passo innanzi. Con Lorenzo è ancora più personale. Diciamo, se volete, che Lorenzo è addirittura un tiranno, ma, in questo caso, soggiungiamo subito col Guicciardini, che Firenze non poteva avere “un tiranno migliore e più piacevole„ di lui.

      LA VITA PRIVATA NE' CASTELLI

DIGIUSEPPE GIACOSA

      Al tempo delle castella, la parola castellano ebbe tre significati diversi, o per dir meglio fu adoperata ad indicare tre diverse classi di persone. Era castellano il signore di uno o più castelli; era castellano colui che, nel nome del signore, teneva il governo di un castello; e castellano si chiamava pure chi dimorava nelle castella, cioè nelle piccole terre cinte di mura

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