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per l'assoluzione del Principe di Scilla dalla scomunica che il Vescovo di Mileto gli aveva già da un pezzo inflitta; in pari tempo aveva sempre continuato ad insistere presso il Nunzio per la venuta del Vescovo medesimo in Napoli. Da Roma fu presto data al Nunzio, fin dal 22 dicembre, la facoltà di assolvere il Principe, a patto che fossero state già adempite tutte le necessarie condizioni. E il Principe venne assoluto, e in tale occasione egli medesimo fece istanza che venissero assoluti egualmente il suo Vice-Principe dottor Fabrizio Poerio e D. Luise Xarava, i quali erano stati scomunicati insieme con lui. Questo fu pure più tardi concesso, e con lungo giro eseguito pel Poerio, mercè facoltà trasmessa all'Arcivescovo di Reggio, ma non risulta che sia stato eseguito del pari per lo Xarava, il quale sappiamo che assai più tardi, nel 1605, richiese al Gran Duca di Toscana che gli ottenesse da S. S.ta la dispensa da qualunque irregolarità commessa pel passato54: così non a torto il Campanella scrisse essere stato lo Xarava perseverante nella scomunica. Arrivava poi nella capitale, la prima settimana del nuovo anno, il Vescovo di Mileto, che aveva impiegato circa un mese per venirsene a tutto suo comodo da Calabria, onde il Vicerè pretendeva doversi ritenerlo contumace. Una lettera del Nunzio, in data 11 gennaio 1600, narra tutti i particolari dell'udienza datagli dal Vicerè, essendovi lui pure intervenuto, e ci fa conoscere gli appunti e le ammonizioni dal lato del Vicerè, e le discolpe e la richiesta di un passaporto dal lato del Vescovo, con la conclusione del rilascio del passaporto senza difficoltà. Uno degli appunti che riesce importante per la nostra narrazione fu questo, che il Vescovo «desse occasione di sospettar di lui, come haveva fatto adesso col difendere qualch'uno di quelli che si pretendevono complici della ribellione seguìta in Calabria; come era un Clerico Cesare Pisano, in favore del quale si trovava fatto ex officio un Processo per Giustificatione del suo Clericato per essimerlo dalla Corte Secolare quando si trattava d'un negotio così grave». Il Vescovo disse «che il Processo del Clericato di quel Cesare era stato fatto avanti si sapesse nulla della congiura, ò ribellione, ad altro fine come poteva vedersi»55. Ma finalmente, nella stessa data 11 gennaio, arrivò pure il Breve Papale, e D. Pietro de Vera lo portò di persona al Nunzio. E già costoro si disponevano a dare cominciamento al processo, quando il Vicerè, avuto il Breve, e trovandosi ancora in Napoli il Vescovo di Mileto, diede improvvisamente ordine che Cesare Pisano fosse giustiziato.

      Il Pisano, secondo il solito, fu tradotto alle carceri della Vicaria, e un documento, che abbiamo allegato al processo di eresia, ce lo mostra il sabato 15 gennaio 1600 entro la cappella segreta di quelle carceri, in presenza de' Rev.di Orazio Venezia, Curzio Palumbo e Geronimo Perruccio, ufficiali della Curia Arcivescovile appartenenti alla Congregazione diocesana del S.to Officio, alla quale, mediante i Confrati bianchi, vicino ad essere giustiziato, egli avea fatto istanza di voler confessare per disgravio della sua coscienza. La lunga confessione che egli fece, e che secondo lo stile del S.to Officio è detta denunzia poichè in fondo con essa riusciva a denunziare sè medesimo e gli altri, lo rivela turbato, confuso, in qualche punto speciale contradittorio, ma nel complesso coerente in tutte le cose di eresia che altre volte avea deposte, con qualche rettificazione verso fra Dionisio, con qualche circostanza aggravante verso il Campanella ed anche verso sè medesimo, riconoscendo di aver creduto a quelle opinioni, la qual cosa aveva altra volta negata. I lettori troveranno questa confessione riportata nella sua integrità tra gli altri Documenti, e potranno scorgere le varianti in raffronto delle deposizioni anteriori56; qui basterà citarne i punti più importanti per la nostra narrazione. Intorno al Campanella, egli rivelò che fra Tommaso, nelle carceri di Squillace, gli avea raccomandato di non voler «ruinare li amici» col suo esame, quando non poteva salvare sè stesso; che inoltre, a tempo della gita da Monasterace a Stilo (cosa da lui precedentemente negata) fra Tommaso gli avea parlato dell'analogia de' nostri corpi con quelli dei cavalli e giumente, e della conversione delle anime nostre «in non essere» non trovandosi inferno, purgatorio e paradiso, ma circa l'esistenza di Dio avea detto dovergli bastare quanto gli aveano comunicato que' frati, essendo cose troppo alte per poterle capire; infine accennò all'essere stato visitato da fra Tommaso nelle carceri di Castelvetere a' primi tempi della sua carcerazione. Intorno a fra Dionisio, revocò di aver saputo da lui le cattive relazioni tra S. Giovanni e Gesù, ma non altro che questo, e intorno a fra Bitonto e fra Jatrinoli non revocò nulla; che anzi ripetè ancora una volta tutti i discorsi di eresie fatti da' frati da lui accompagnati nelle gite a Bagnara e a Messina, e poi a Stignano in casa Grillo etc., come pure i discorsi consimili da lui stesso tenuti nelle carceri di Castelvetere col Gagliardo, che vi partecipava, e col Santacroce, col Marrapodi e coll'Adimari, che egli voleva indurre in quelle opinioni, delle quali infine si pentiva e voleva far penitenza, vedendo «di havere da morire fra breve termino». Tutto ciò dovè sembrare di troppa gravità agli ufficiali della Curia, i quali non presero alcuna risoluzione; sicchè l'indomani, 16 gennaio, intervenne il Vicario Arcivescovile in persona, Ercole Vaccari, che poi troveremo come Giudice nella causa dell'eresia, e costui, fatta qualche altra interrogazione, decretò che per rendere valida la deposizione anche

      contro i complici «et ad omnem alium bonum finem et effectum» fosse al Pisano amministrata la tortura con la corda per un ottavo di ora. Ed immediatamente la tortura venne amministrata, ed i lettori troveranno fra' Documenti il primo processo verbale di questo genere. Spogliato, legato ed attaccato alla corda, di poi tratto in alto, il Pisano dovè più volte dichiarare che le cose dette erano vere, verissime; e soggiunse «lhò ditto per scaricarmi in tutto è per tutto la conscientia, è per salvarmi l'anima, et se non l'havesse ditto, lo tornaria a dire». Poi soggiunse ancora: «Monsignor mio, misericordia, che hò ditto la verità, et sono quattro giorni che non hò mangiato, è mi trovo debole»; ed allora, con la solita formola, il Vicario ordinò che fosse deposto, che gli fossero accomodate le braccia e venisse rivestito, quindi lo condannò come eretico formale, imponendogli l'abiura ed alcune penitenze «in questo poco spacio di tempo di vita» che gli rimaneva. La sentenza fu subito letta dal Mastrodatti della Curia Gio. Camillo Prezioso, l'abiura fatta e sottoscritta dal Pisano e l'assoluzione data dal Vaccari, nell'Audienza criminale della Vicaria. – Ma in pari tempo anche i Confrati bianchi ricevevano dal Pisano talune «esculpationi» intorno alla congiura, come ci mostra il documento relativo alla sua esecuzione, e queste meritano bene di essere ricordate57. In fondo il Pisano si ritrattava sul conto di talune persone che avea nominate ne' tormenti sofferti in Squillace, e negli «ultimi tormenti» sofferti in Gerace. In Squillace egli avea dichiarato che il fratello di Orazio Santacroce avrebbe dato aiuto «al trattato della rebellione», ed inoltre che avea parlato pure con Geronimo Conia di detto trattato, e questo non era vero. In Gerace avea dichiarato che i fratelli Moretti consentivano al trattato e che fra Dionisio glie l'avea detto, come pure che Gio. Angelo Marrapodi avea promesso di portar gente in aiuto, e tutto questo nemmeno era vero. – Tali furono gli atti estremi del Pisano, che nel medesimo giorno, malgrado fosse di Domenica, venne condotto al supplizio; ci corre pertanto il debito di giudicarli. A rigore, la confessione delle eresie potrebbe dirsi fatta con la speranza di suscitare direttamente nel S.to Officio la premura di avocare la causa al suo tribunale, e quindi intercedere perchè l'esecuzione fosse sospesa; tuttavia il tenore di essa è tale da poterla credere sincera, mostrando un uomo per quanto turbato altrettanto scevro d'illusioni, mentre d'altra parte tutta la vita anteriore di lui ce lo rivela di costumi tristi, ma leggiero più che malizioso. Le discolpe poi intorno alla congiura, le quali attenuano la responsabilità di parecchi ed anche esonerano perfino fra Dionisio circa un punto speciale, non fanno motto nè del Gagliardo, nè del Bitonto, nè del Jatrinoli, e però implicano evidentemente una conferma dell'esistenza del concerto per la ribellione: se non era vero che il tale e il tal altro vi avessero avuta parte o che ve l'avessero avuta nella misura prima deposta, era vero che vi avessero avuta parte in una misura più circoscritta e che ve l'avessero avuta tutti i rimanenti. Di certo non gli era mancata l'opportunità di disdirsi in tutto e per tutto, e gli sarebbe riuscito tanto più facile il farlo in poche parole qualora la coscienza glie l'avesse consentito. Dopo ciò bisogna dire che fu assai male informato il Campanella, quando nella sua Narrazione scrisse che «il Pisano si ritrattò più volte, e poi dicendo che l'heresia lo havea salvato, lo fecero morir di domenica, avanti che si presentasse la bolla del clericato per lunedì, e nella sua morte si scommosse il cielo el mare, e s'annegaro 8 navi e galere in porto di Napoli». Che propriamente nella notte del 16 gennaio, ed anzi sull'alba

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<p>54</p>

Ved. i nostri Doc. 83, 86, 89, pag. 61, 63, 64; e le notizie date nella nota a pag. 127 del vol. 1o di questa narrazione.

<p>55</p>

Ved. Doc. 81, pag. 59.

<p>56</p>

Ved. Doc. 306, pag. 248.

<p>57</p>

Ved. Doc. 238, pag. 124.