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disgustato de’ Medici, scrisse poscia molto meno scelleratamente ne’ Discorsi, nelle Storie; e tanto piú, che in tutte l’opere sue egli è poi lo scrittore, piú, o quasi solo semplice, piano, naturale, lontano dal periodar pedante; il piú elegante, in somma, e migliore di tutti gli antichi nostri prosatori, senza paragone. Del resto, il gran politico ebbe pure disgrazia fino al fine. Fu finalmente impiegato da’ Medici; ma poco prima di lor nuova caduta del 1527. Ebbe fortuna in ciò, che non sopravisse se non pochi dí [morto 22 giugno]; non ebbe tempo a mutar una o due altre volte colla fortuna. Fece un bene vero, ma non durevole; predicò, promosse, ordinò armi proprie nella imbelle sua città, e scrissene il libro Della guerra. Una vita di Machiavello, fatta virilmente, senza la trista e solita preoccupazione di difender ogni cosa, ogni uomo italiano, sarebbe una delle opere piú utili da farsi ora, per la formazione della politica patria presente ed avvenire. – Francesco Guicciardini [nato 1482] barcheggiò egli pure, servendo prima la repubblica fiorentina al tempo del Soderini, e poi i Medici a cui rimase fedele. Certo che questa era la parte men generosa; pur meno male, poteva credere fosse oramai la sola possibile a Firenze. Ma fu bruttissimo il suo servire, e con zelo, e contro a’ fuorusciti, il tiranno Alessandro. Alla morte di costui, Guicciardini fu principale nel dar il potere al duca Cosimo, giovanetto ch’ei credea governare; ma nol governò; e fu deluso cosí, anche questo politico provetto. Il fatto sta, che fin d’allora sarebbe stata piú facile sempre, e piú utile sovente, quella rettitudine la quale si vien facendo sola possibile in questa nostra civiltà e pubblicità universale. Ad ogni modo, Guicciardini si ritrasse in villa, e scrisse in un anno o poco piú quella storia de’ tempi suoi, che ha nome di prima fra le italiane; che per gravità, acutezza, informazioni e libertá merita senza dubbio gran lode; e che può biasimarsi sì come mancante di politica virtù, e indifferente tra il male e il bene, ma che non cade almeno nello sfacciato lodare e proporre il male, di Machiavello. Parmi bensì molto inferiore nello stile, in tutto il modo di scrivere, lungo, intralciato, latinizzante; se non che, essendo morto l’autore in questo lavoro [27 maggio 1540], ciò che n’abbiamo non è se non l’abbozzo di ciò a che egli l’avrebbe ridotto, se avesse avuto tempo ad esser breve e limpido; ondeché è meno a biasimare lui, che non quegli imitatori, i quali imitano qui, non solamente, come al solito, i difetti del loro autore, ma quelli di un rozzo abbozzo di lui. – Non abbiam luogo a dir degli altri storici fiorentini. Nardi [1476-1540], Nerli [1485-1556], Segni [-1558], Varchi [1502-1565], men famosi forse, men grandi che i due detti, ma piú virtuosi, piú generosi, il Varchi sopra tutti. – Il Davanzati [1529-1586], piú giovane di tutti questi, cadde in un’affettazione contraria a quella del Guicciardini e di altri cinquecentisti. Traduttor di Tacito, volle essere piú breve di lui, che è impossibile senza farsi oscuro. E cadde in quella fiorentineria giá affettata da altri, ma meno male perché almeno in cose facete. E l’una e l’altra affettazione accennavano giá quella brama di novitá, che, quando viene al fine di un gran secolo, suol produrre corruzione; erano preludi al seicentismo. Borghini si volgeva intanto alla storia antica, erudita; come si suole in tempi di servitù, di censure. Tutti questi nella sola e ferace Firenze. – E di storia e politica scrivevano intanto nell’altre parti d’Italia, Bembo [1470-1547], Paolo Giovio [1483-1552]. Giambullari [1495-1564], Costanzo [1507-1591], Adriani [1513-1579], Foglietta [1518-1581], Sigonio [1520-1584], Bonfadio [m. 1550], Ammirato [1531-1601], oltre parecchi altri minori. Grandi ricchezze storiche, come si vede, e che superano di gran lunga quanto si scriveva allora fuor d’Italia; come gli storici stranieri piú liberi e piú misti a pratica superano ora noi, pur troppo. S’aggiunsero le storie pittoriche e gli altri scritti degli artisti, genere quasi esclusivamente nostro. Benvenuto Cellini [1500-1570] e Vasari [1512-1574] sono noti a tutti; piacevolissimo il primo, ma rozzo e partecipe de’ vizi dell’etá sua; scrittore semplice e sciolto il secondo, e tutto inteso a ciò che narra e tratta, senza pretese né imitazioni pedanti (salvo in alcuni proemi che non son di lui); ondeché gli scritti suoi rimangono de’ piú eleganti di nostra lingua. E insieme con quelli di Leonardo da Vinci, sono poi un vero tesoro di tradizioni artistiche di quel secolo aureo dell’arti.

      10. Continua.– Né furono meno numerosi o meno splendidi i poeti. Primo senza contrasto Ludovico Ariosto [1474-1533], un vero incantatore, che toglieva sé e toglie noi al tristo mondo reale per portarci in uno imaginario e tutto ridente; precursore di Walter Scott per le eleganze, di Cervantes, Molière e La Fontaine per quel celiar semplice, non amaro, quel celiar per celiare, che essi quattro intesero sopra ogni altro di qualunque tempo o paese. Né gli mancò il ridere utile, correttor di vizi; scrisse comedie e satire; ma fu minore in queste; la sua natura era indulgente, od anche indifferente. Non accrebbe, è vero, come Dante, il tesoro de’ pensieri nazionali; ma oltre all’utilità letteraria, una morale e politica è forse nelle eleganze che salvano da bassezza, dalla quale le nostre lettere, e massime le facete, non si salvarono sovente. Ad ogni modo, sommo in suo genere, sovrasta alla severità della critica. – E gran celiatore, ma quanto minore! fu il Berni [-1536]. E minori gli altri poeti (prosatori pure), Rucellai [1449-1514], Sannazzaro [1458-1530], Bibbiena [1470-1520], Trissino [1478-1550], Guidiccioni [1480-1541], Molza [1489-1544], Bernardo Tasso [1493-1569], Alamanni [1495-1556], Della Casa [1503-1556], Annibal Caro [1507-1556], oltre quasi tutti quegli altri che nominammo tra’ prosatori, ed altri che non nominiamo di niuna maniera. I quali tutti insieme poetando o rimando in tutto questo tempo, empierono poi que’ Canzonieri o Parnasi o Raccolte, che paiono a molti una delle glorie italiane, perché essi soli sanno almeno divertire. Pare ad altri all’incontro che la poesia non ammetta mediocrità; e che l’inutilità non sia scusabile se non nei sommi. Come donna, e cantante un amor vero e virtuoso, sovrasta forse Vittoria Colonna, moglie del traditore marchese di Pescara [1490-1547]. E sovrasta per infamia Pietro Aretino [1492-1572], prosatore e rimator mediocrissimo, anzi cattivo, e per le cose scritte e per il modo di scriverle, empio, lubrico, piaggiatore e infamatore insieme, che si fece un’entrata, una potenza col vendere or il silenzio, or le adulazioni. È vergogna del secolo che lo sofferse, lodò e pagò e chiamò «divino». – Del resto, avendo detto della storia e della poesia e cosí dei due generi di letteratura in che questo tempo fu grande, non ci rimane spazio a dir di quelli in che fu solamente abbondante. Se ci mettessimo a nominar gli oratori piú o meno retori, perché non aveano a discutere interessi reali dinanzi a un’opinione pubblica potente; i latinisti, meravigliosi se si voglia per li centoni che fecero delle frasi antiche, ma appunto perciò piú o men retori essi ancora; i grammatici di lingua italiana, piú utili senza dubbio, ma timidi ed incerti perché nostra lingua mancò sempre d’un centro d’uso, e poco logici perché poco logico era stato il secolo delle origini, e meno logico era questo; i novellatori, piú o meno imitatori e sconci, come i modelli e il secolo; i moralisti, come il secolo leggeri, attendenti a convenienze e cortigianerie piú che a principi sodi, ed anche meno ai virili e meno ai severi; e gli scrittori che trattarono di filosofia piú letterariamente che scientificamente, e si scostarono da Aristotele per cadere in Platone, ma meno nel Platone vero interprete degli immortali dettami di Socrate, che in un platonismo spurio e intempestivo; se, dico, noi nominassimo tutti coloro che gli esageratori de’ nostri primati ci dan come grandi, noi avremmo a rifare parecchie nomenclature molto piú lunghe che non le fatte. Ma il vero è, che qui, piú che altrove, è a distinguere tra le grandezze relative e le positive. Che le lettere nostre del Cinquecento sieno state di gran lunga superiori a quelle contemporanee e straniere, è indubitabile; ma che elle rimangano superiori od anche eguali alle straniere piú moderne, e che perciò elle debbano imitarsi ora di preferenza o per la loro eccellenza o per dover nostro di nazionalità, ciò non è vero e non può essere; perché non può essere che i secoli progrediti non abbiano prodotte letterature migliori e piu imitabili, che i secoli piú addietro; perché il nostro primato di tempo esclude appunto il primato di eccellenza; e perché poi, quanto a nazionalità ella non consiste nel non ammirar né imitar se non le cose giá nazionali, ma anzi a far nazionali quelle buone che non sono. Se Alfieri e Manzoni avessero cosí inteso il dovere di nazionalità, essi non avrebbero aggiunto la tragedia e il romanzo ai tesori vecchi delle lettere italiane. – Né in filosofia materiale si progredì guari allora in Italia. Questo è il tempo di Copernico polacco [1473-1543]; e dicesi che la teoria di lui non fosse anche prima di lui sconosciuta in Italia; ma il fatto sta che gli astronomi d’Italia furono allora poco piú che astrologi, e son famosi quelli di tutti i principotti italiani e di Caterina Medici ed altri, che infettaron l’Europa di lor ciurmerie. Ed anche costoro

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