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oppresso, infelice. Succedettegli Emmanuele Filiberto, tutto diverso, uno anch’egli di que’ principi di Savoia, o quegli forse che piú di nessuno, seppe, operando secondo i tempi, farsi grande. Figlio di principe spogliato, andò come i maggiori a guerreggiar fuor di casa; ma non a modo antiquato, alla ventura, anzi al modo nuovo regolare, e vi diventò capitano e gran capitano. – Intanto Cosimo tentava sorprendere Siena, ma non gli riusciva [27 gennaio 1554]. Veniva allora un esercito spagnuolo ad assediarla, affamarla. Si rinnovava l’esempio di Firenze. Anche Siena e i francesi che v’erano fecero una bella difesa. Ma anch’essa cadde [2 aprile 1555]; anch’essa non vide mai piú guerra intorno a sé; come Firenze, come Pisa, Toscana tutta. Ed anche in essa seguirono supplizi ed esigli, e cessò il governo repubblicano; e anch’essa fu data in breve a Cosimo duca di Firenze [19 luglio 1557]. – Intanto, essendo ormai la guerra senza risultati in Italia e Germania, facevasi, addí 5 febbraio 1556, una tregua a Cambrai. Dopo la quale, stanco d’affari, di guerre, di contese, di fortuna (perciocché questa pure stanca quando non è congiunta con qualche gran pensiero, che uno prosegua o creda proseguire a benefizio della patria, o della cristianità o del genere umano), Carlo V rinunziò l’imperio con gli Stati di Germania a Ferdinando I suo fratello; e quelli di Spagna, America, Paesi bassi, Borgogna, Sardegna, Due Sicilie e Milano, a Filippo II figliuol suo. Certo non furono le convenienze de’ popoli quelle che fecero cosí dar Lombardia a Spagna lontana, anziché ad Austria piú vicina. Ma allora e per gran tempo non furono, non sono le convenienze de’ popoli, ma quelle de’ principi, che si chiamarono e si chiamano «ragioni politiche». Durerà? Io ne dubito ormai. – Ruppesi quindi tra breve la tregua, rinnovossi la guerra tra Enrico II di Francia, e i due Austriaci Ferdinando imperatore e Filippo. Qui fu che papa Paolo IV s’accostò a Francia. E quindi un esercito francese scese sotto il duca di Guisa a cacciar gli spagnuoli dal Regno; e s’ampliò allora la guerra per tutta la penisola di nuovo. Ma facevasi molto piú grossa nelle Fiandre; ed Emmanuel Filiberto, capitano dell’esercito spagnuolo, vinceva l’esercito francese in gran battaglia a San Quintino [10 agosto 1558], e minacciava Parigi. E quindi, guerreggiatosi lá e in Italia poco altro tempo, conchiusesi finalmente, addí 3 aprile 1559, la pace a Cateau-Cambrésis. Né furono guari diverse le condizioni di questa pace da quelle della pace di Cambrai di trent’anni addietro: il Piemonte stesso, restituito al duca vittorioso, non fu del tutto sgombro di stranieri, e l’Italia rimase legata, mani e piè, Lombardia e Napoli, a casa d’Austria. E ne rimasero pur troppo piú durevoli gli effetti: per centoquarant’anni Francia non contese piú un po’ fortemente l’Italia all’emula antica; l’Italia non fiatò piú sotto all’incontestata servitù.

       9. Colture di questo periodo [1492-1539]. – Noi ci scarterem quinci innanzi dal nostro uso di aspettar il fine di ogni grande etá per accennar tutta insieme la coltura di essa; accenneremo via via da sé quella d’ognuno dei periodi in cui subdividiamo questa ultima etá. E ciò faremo, perché, appressandoci a’ tempi nostri, noi pensiamo che sieno piú chiare, piú alla memoria dei leggitori le suddivisioni, e possa cosí essere loro piú grato aver tutto compiuto, politica e coltura, il cenno di ciascuna di esse. – Qui dunque in questi sessantasette anni noi vedemmo peggiorar piú che mai la politica italiana, sviata sì ne’ secoli scorsi dal sommo scopo dell’indipendenza, ma sviata almeno a quello della libertá; mentre qui all’incontro ella non ebbe piú scopo nessuno, e, salve poche eccezioni, non fu piú politica nazionale, ma provinciale, la pessima di tutte per qualunque nazione, la piú stolta per una, che ha tante comunanze di schiatte e di lingua, tante solidarietà d’interessi e di bisogni. Ma se si dicesse ciò solamente, ne rimarrebbe incompiutissima l’idea di questo periodo, di politica pessima sì, ma di coltura la piú splendida fra quante furon mai da Pericle a’ nostri dí. Del resto, noi spiegammo giá siffatto contrasto: tutti gl’impulsi eran giá dati, tutti gli uomini giá nati e piú o meno educati, quando incominciò questo periodo; impulsi ed uomini non potevano cessare a un tratto; il fior maturato al tempo piú sereno, doveva fruttificare a malgrado la tempesta. E tanto piú, che mentre venivasi distruggendo ogni indipendenza e libertá nazionale, rimase pure per qualche tempo molta libertá personale; che chi era oppresso dagli uni trovava libertá, operosità presso ad alcun altro, presso a quegli stessi stranieri, i quali (a ragione allora, e relativamente a’ nostri avi) furon detti «barbari», ma che pur ammiravano, promovevano e venivan prendendo le nostre colture. E cosi in somma sorse quello che noi chiamammo giá «baccanale», ma che qui diremo elegantissimo baccanale di coltura; un rimescolio di scelleratezze e patimenti e solazzi, per cui l’intiera Italia del Cinquecento si potrebbe paragonare alla lieta brigata novellante, cantante ed amoreggiante in mezzo alla peste del Boccaccio; se non che qui, oltre alla peste, eran pure le ripetute invasioni straniere, le guerre, i saccheggi, le stragi, i tradimenti, le pugnalate e i veleni; ed oltre ai canti e alle novelle, ogni genere di scritture e di stampe, e pitture e sculture e architetture, ogni infamia, ogni eleganza, ogni contrasto. Noi vecchi rammentiamo un tempo minore, ma simile, quello dell’ultime invasioni francesi; simili i due in que’ contrasti, e simili anche in ciò, che nell’uno e nell’altro tutte le colture erano frutti, tutti gli uomini erano figli del secolo precedente. Così non si assomiglino intieri i due secoli decimosesto e decimonono! cosí non vengano scemando via via gli splendori del secondo, come siam per veder del primo! – Se non che, la libertá nuovamente sorta in Italia, e giá radicata in Piemonte, pare assicurarci oramai da quest’ultima somiglianza. Il sole risorto della libertá non può non maturare nuovi e migliori frutti di coltura. – E tornando a quelli del Cinquecento, noi incominciamo dalle lettere, dalla storia o politica scritta, vicina alla pratica, e dallo scrittor piú vicino, Machiavello. Fu in gioventù tutto uomo di pratica, colto, non letterato. A’ ventinove anni [1498?] ebbe carico di secondo segretario della repubblica fiorentina ricostituita; e tennelo sotto il Soderini gonfaloniere fino al ritorno de’ Medici, quattordici e piú anni in tutto; andando nel frattempo a ventitré legazioni, al re di Francia, all’imperatore, al papa, al duca Valentino, e ad altri di que’ perversissimi politici. I dispacci (belli, brevi, semplicissimi del resto) che rimangon di lui lo mostrano poco diverso da coloro; non è meraviglia, né grande scandalo. Venuti i Medici, e cacciato esso dall’ufficio, accusato di congiura, imprigionato, collato, e liberato per protezione di Leon X, non sentì, o almeno non mostrò l’ira di Dante contro a’ persecutori, diventò mediceo, pallesco; ed è pur caso volgare. Desiderò rientrar in uffizio, servire il nemico del governo che aveva servito, il principato dopo la repubblica; volgarissimo. Ma negletto, fece uno scritto, un memoriale politico, che dedicò ai Medici e non pubblicò; e il libro è quello del Principe che ognuno sa, e dov’è accennato sì un grande scopo colle famose parole di Giulio II, «liberar l’Italia da’ barbari»; ma dove i mezzi son quelli de’ principi, de’ popoli, della politica d’allora, astuzie, perfidie, violenze, vendette, crudeltà; e qui la colpa diventa grave, immensa, e nella perversità e negli effetti; nella perversità, la quale è sempre le mille volte maggiore in chi scrive che in chi opera perversamente, perché non ha le scuse, gli allettamenti della pratica; negli effetti, perché a pochi uomini, grazie al cielo, è dato far mali durevoli nella pratica rinnovantesi da sé, mentre durano generazioni e generazioni i mali fatti con un libro immorale. Gran semplicità parmi poi quella disputa letteraria fatta e rifatta: qual fosse l’intenzione dell’autore? Chiare dalle parole di lui mi paion due: una personale e bassa, ingraziarsi co’ principi distruttori della repubblica da lui servita; l’altra pubblica ed alta, l’indipendenza; ma peggio che mai avvilita la prima, deturpata la seconda dagli scellerati mezzi proposti. Perciocché allora, come prima, come poi, come sempre, come ultimamente, l’indipendenza non poté, non può, non potrà mai procacciarsi con questi mezzi; anzi nemmeno con quelle destrezze, e doppiezze, ed abilità buie, e segretumi che sono il meno male della politica di Machiavello. Non si rivendica né si tiene in libertá una nazione colla furberia, vizio da servi o tiranni. Le imprese d’indipendenza son quelle fra tutte che vogliono piú unanimità; e questa, grazie al cielo, grazie a ciò che resta di divino nella natura umana, non s’ottiene mai se non colla virtù franca, chiara, pubblica, e quasi direi grossa, o sfacciata. E quindi (mi sia tollerato il dirlo di questa, che pare a molti una delle somme glorie nazionali) io non crederei che sia stato mai un libro cosí fatale ad una nazione, come il Principe all’Italia: ha guastate e guasta le imprese d’indipendenza. V’ha un’impostura, un’ipocrisia delle scelleratezze in molti che senz’essa sarebbon buoni; s’immaginano che la politica non possa esser pratica

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