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or non dovea cosí scelerato pensiero indurgli terrore?

      Forca. Ma tutto ciò è nulla: ci è di peggio assai.

      Filigenio. Che ci può esser peggio?

      Forca. Quel dottore è un cervello bizaro, straordinario, ha molti bravi che lo seguono, per un pelo se la torrebbe col diavolo; ne sta geloso e ha deliberato farlo ammazzare e li tiene le spie sovra.

      Pirino. (Non gli basta quanto ha detto: ci vuol aggionger del suo ancora).

      Filigenio. Se ben per i continui inganni che m’ave usato costui, non gli devo prestar fede, pur la vita di un figlio importa molto. Forca, tu che conosci costoro e sai questi maneggi, ricorro a te, mi pongo nelle tue mani; vorrei che rimediassi, ché non si procedesse piú oltre.

      Forca. Non è cosa da ragionarsene in piazza: potrebbe egli sovragiongere e stimarebbe che il tutto fusse uscito da me, e non si potrebbe piú rimediare: vi mostrerò modo di salvarlo.

      SCENA VI

      Pirino. solo.

      Pirino. Ah, Forca traditore, che tradimento m’hai tu fatto? farmi suspetto e reo appo mio padre! Ti arai voluto vendicare di quelle bastonate de quali poco anzi ti dolevi di me. Come arò animo di comparir piú mai dove il mio padre sia? manderò me stesso in essiglio. Perderò in uno istesso tempo il padre, la patria e l’innamorata, che è peggio assai che perder la propria vita. O come accetterei volentieri alcuna sorte di morte per liberarmi da vita cosí nemica. Uh, uh! Possa esser fatto in mille pezzi, se la scappi: vo’ morire, ma prima che muoia farò vendetta della cagion della mia morte. Mi tratterrò da qui intorno finché venghi, per passargli la spada mille volte per i fianchi.

      ATTO II

      SCENA I

      Panfago parasito, Pirino.

      Panfago. Par che questa mattina nell’uscir di casa abbia cantato la civetta, cosí ogni cosa mi va a traverso. Vo al dottore per desinar con lui, e mi dice che sta colerico, perché la sua innamorata ama altri e sta inferma. Vo in casa di un altro, e trovo la casa piena di pianto, ché vi si facea il mortorio. Fui forzato andare ad un certo che avea abbandonato, perché non avea piú succo – perché noi siamo come i pidocchi: quando non avemo piú sangue da succhiare, l’abbandoniamo; – e disse che mangiava altrove. Alla taverna non mi posso accostare, ché devo all’oste, e mi dice che ave cavato l’essecutorio, talché sto fra duo capitali inimici, la fame e l’oste: all’una non posso rimediare, all’altro non ho che dare. Pur, di lontano, ho fatto l’amor con una porchetta grassa che si rostiva; si burlava di me, perché mi mirava con certi occhi stralunati e con la lingua pendente fuori tra’ denti: ci ho lasciati gli occhi sopra, e mi ha cavato il cuor di martello, la traditora. Vommene ora a trovar Pirino; e se la speranza mi fallisce, arrabbiarò di fame.

      Pirino. Misero me, qual si trova pena maggiore, che paragonandola alla mia non sia una gioia! non è misero stato che non abbia qualche speranza; sola la mia è priva d’ogni futura allegrezza.

      Panfago. (Ecco a tempo chi desiava). Buon augurio, Pirino caro, amato e riverito da tutte le belle donne del mondo.

      Pirino. Non merito esser burlato da te.

      Panfago. Ben sai che son piú tosto avaro delle tue lodi, che prodigo in adularti. Che si fa?

      Pirino. Se sta combattendo con la rabbia e con l’ira; e ne ho tanta nel petto, che bastarebbe a riempirne tutte le fère del mondo.

      Panfago. Che colpa ci ho io? Volete voi con la vostra rabbia uccidere voi e me in un colpo? Se col mostrarti rabbioso e iracondo pensi che io non abbia a desinar teco, l’erri in grosso. Son gionto al porto: scacciami quanto vuoi, che la tempesta della fame mi vi riconduce.

      Pirino. Troppo pungente e pien di spine è il mio cibo per ora.

      Panfago. Verrò a mangiar con voi con denti calzati di buoni stivali.

      Pirino. Mi pasco di veleno di vipre e di serpenti.

      Panfago. Verrò con la pietra di san Paolo, o mi farò incantare da un ciurmatore. Mi negarai almeno due bicchieretti di quel tuo vino garbo?

      Pirino. E che non è garbo quel che bevo, Iddio tel dica per me: la mia bevanda è di amarissime lacrime.

      Panfago. Di lacrima dolcissima di Somma? Vorrei che sempre si piangesse in casa tua, e non ne mancassero mai le bótte piene di quella lacrima: ché quel color di sangue mi fa rallegrar tutto il sangue; fresco e brillante, mi fa brillare il core; ponendolo in bocca, quel suavissimo odore mi conforta il naso e il cervello e il gusto. E quando lo sento calar nel petto, porta seco un mar di piacere e un foco tacito che tutto mi riscalda. Non posso saper io la cagion della tua rabbia? sbuffi, e mordi l’ugne: hai meco alcuna cosa?

      Pirino. (Non posso levarmi da dosso questa mosca canina). Se tu sapessi da quanta angoscia e tribulazione è afflitta l’anima mia, n’avessi compassione; però di giá vattene, ch’io me la torrei con le mosche. Ma ecco quel traditore!

      SCENA II

      Forca, Pirino, Panfago.

      Forca. Fermate, padrone: che volete fare?

      Pirino. Romperti la testa.

      Forca. Romper la testa a chi se la rompe ogni ora per pensar trappole per vostro serviggio? fermatevi, vi dico.

      Pirino. Non mi fermarò, se prima non ti arò cavato il core.

      Forca. Volete cavar il cuore a chi ha cavato i danari dal cuor di vostro padre? Cancaro, io l’ho scappata bene, aiutami tu, Panfago!

      Panfago. Or ora torno.

      Pirino. Assassin cane, ti voglio aprire il petto!

      Forca. Questo è il premio di chi ave aperto la cassa e la borsa di vostro padre, e or ve le porto?

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