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non m’abbi mandata Melitea, se non lo fai ché cosí straziandomi, me la facci ricever piú caramente.

      Mangone. Certo non per mancamento di voluntá o di diligenza; se non che, ordinandole che si ponesse in ordine per venir a trovarvi, sovrapresa da un strano accidente, cascò morta; e se non che m’accorsi che sotto le vesti cosí pian piano le palpitava il cuore, io la mandavo a sepelire.

      Dottore. L’altro giorno la viddi bellissima.

      Mangone. Se la vedeste adesso, non la riconoscereste, cosí son gli occhi scoloriti e le labra smorte e sparito il fior delle guancie. Io son furbo e conosco al naso le sue infirmitá. Ella sta martellata di Pirino; e quando intese ch’era stata compra da voi, trafitta dalla disperazione, le venne quello accidente. La sua infirmitá è piú finta che vera: vorrebbe esser venduta a suo gusto, ma s’inganna, ché io uso ostinazione con gli ostinati, e con ostinata perfidia vincerò la sua perfidia. Son tre giorni che non le do da mangiare; e se non si risolve di far a mio modo, io perderò i cinquecento ducati, voi l’innamorata ed ella la vita.

      Dottore. Dio me ne guardi; vorrei piú tosto perder quante robbe ho al mondo! Ma Pirino che t’offerisce?

      Mangone. Pirino è un giovane attillato, pulito, che non ha che fare se non l’amor con le fenestre, non ha altro in bocca che «occhi», «vita», «speranza», «spirito» e «anima»; e pensa con le sue levate di barretta, inchini e parole profumate tormela di mano; ma erra, ch’io vo’ danari, danari.

      Dottore. Perché Melitea ama piú tosto costui che me?

      Mangone. Non altro ch’una maladetta usanza delle donne, che quando sono pregate, ancorché se ne morissero di voglia, se ne stanno in contegno e ci vogliono straziare. Ma le bastonate alfin le fanno far quello per forza, che di sua volontá non vogliono fare.

      Dottore. Essendo in mio potere, non volendomi per amante, mi ará per padrone. Ma toltone che sia un poco di tempo, del resto non sono io meglio di lui in tutti i conti?

      Mangone. Dite il vero.

      Dottore. Che ha un giovane piú di me? In quel fatto proprio, in cambio di far carezze alle povere donne, tutte le dimenano e le strappazzano senza rispetto; noi vecchi abbiam un natural piú rispettoso, sempre le comparemo innanzi col capo chino e le trattiamo con piú creanza. A’ giovani quel fatto è fin de’ loro amori, e spento in lor quel disordinato appetito, è spento l’amor loro; a noi per contrario, non potendo saziarcene, l’amore è sempre nuovo. Ma io vo’ scoprirti il mio pensiero, Mangone mio. So ben che in questa etá non devrei cader in simil colpa, ma con fortezza e costanza resistere alle passioni, e devria far un guadagno della mia vergogna, tacere e soffrire: ché se è cattivo il fare, è peggio il palesarlo; ma lo fo non per fin di diletto, ma per desiderio di successione. Quando morí, mia moglie Brianna mi lasciò una fanciulla chiamata Alcesia; e volse la mia disgrazia che, fuggendosene la balia per certi rispetti, se la menò seco molti anni sono in Ragugia: mandai e non potei trarne nulla di costrutto, restai sola e infelice reliquia del mio legnaggio, del che son vissuto e vivo da disperato; e trovandomi da quarantamila ducati di facoltá, non avendo a chi lasciarla, mi par assai duro… .

      Mangone. Lasciatela a me, ché ve ne arò assai obligo.

      Dottore. …Tanto piú che ho una dozzina di parenti larghi che mi fanno il córso adosso degli anni che vivo, e pregano Iddio che muoia presto, per aversegli a godere. La tua Melitea mi sta molto a cuore: a lei sono drizzati tutti i miei pensieri, e sento tirarmi da una viva forza ad amarla. Poi è tenerina, poco fa levata dalla balia, come un capretto di latte; assai, per me che son vecchio, con lei mi pareria ringiovenire; e se piacesse a Dio che ne avesse un figlio, me la torrei per moglie e coprirei il fallo con nome di matrimonio; e sarebbe la sua, la mia e la tua ventura insiememente: ch’io sarei sodisfatto, ella ricca e tu padron della mia casa, ché nello avanzo della mia vita sarebbe fra noi commune la stanza, le facoltá e le mie cose piú care. Però non vorrei che fussi cosí austero con lei; vorrei che il suo carcere fusse tanto che bastasse a farmi amare, non a tormentarla. E come potresti tu batter quel corpo, che non battessi il mio cuore? però vo’ che le porti alcun presentuccio da mia parte, ché i doni sono di valore inestimabile a farsi amare dalle donne.

      Mangone. Ella è vivanda riserbata per la tua bocca.

      Dottore. Mangone, sai che vorrei dire?

      Mangone. T’intendo: che Pirino non mi faccia qualche burla. Ti rispondo che le burle sono bene ad inventarle e ordinarle, ma a far che riescano, eh ci vuol altro che parole!

      Dottore. Intendo che ha un servo molto astuto e sottile…

      Mangone. Come quello uccello che porta il grano al molino.

      Dottore. …«e che non ha tanti peli in testa, quante lingue che gridano:» forche e capestri; però prego Iddio, ché tosto gli succeda.

      Mangone. Non bisogna pregarne Iddio, ché a questo fine ce lo condurranno le sue buone opre: ha mal vissuto e mal morirá; e il padron non è meglio di lui, servo degno di tal padrone.

      Dottore. Mi vo’ partire; il presto ti raccommando.

      Mangone. Ed io vo’ al molo a trovare il raguseo.

      SCENA IV

      Pirino, Forca.

      Pirino. Comporterai, o Forca, che tu e io siamo scherniti e vilipesi da un furfante ruffianello? Diménati, risvégliati, dimostra che sei vivo e non dormi: ove è l’ingegno, ove sono le tue grandezze, ove i tuoi gran fatti che fur tutti prigionieri delle tue astuzie?

      Forca. Molte girandole mi vanno per la testa: mi stillo il cervello e ordisco gran matasse, ma non mi sono ancor rissoluto ad alcun partito.

      Pirino. Aiutami.

      Forca. Mi uccidete.

      Pirino. Il breve termine che Mangone ha dato a Melitea di gir al dottore, è il termine della mia vita: intanto io sto nel mezzo delle fiamme ardenti. Rispondemi.

      Forca. Io sono cosí internato ne’ pensieri, che sono fuora di me: il desidero piú di voi per vendicarmi di quel manigoldo. Penso e ripenso, e tuttavia non mi riesce nel cervello. Ma quel non aver danari mi fa venir il sudor della morte.

      Pirino. Se avessimo danari, non sarebbono necessari gli inganni.

      Forca. Io non dico cinquecento scudi, ma alcuni dinari maneschi per spendere e intricare. Ditemi, sète voi deliberato di averla?

      Pirino. Sí.

      Forca. Per ogni via?

      Pirino. Sí.

      Forca. E non lasciar l’impresa?

      Pirino. Lascieranno piú tosto i cieli di muoversi, il sol di splendere, mancherá l’aria, si risolverá il mondo, che possa lasciar Melitea. L’amor nostro è invecchiato, non può scordarsi: ella è cosí tenacemente scolpita nel mio core, che tanto sarebbe levarmela dal core quanto svellerne l’istesso core.

      Forca. Orsú, poiché il vostro cuore è fondato piú tosto in maturo consiglio che in leggiera volontá, che come fusse indebolita si risolverebbe in nulla, mano a’ fatti, animo da imperadore: risoluzione, animo e danari fanno tutte l’imprese e sono il nervo e l’anima de’ negozi.

      Pirino. Se mai verrò al frutto dell’amor mio, beato te.

      Forca. Almeno ne guadagnasse le scorze di quel frutto che sarebbe una veste.

      Pirino. Altro che veste arai. Una buona somma di danari.

      Forca. Pur che non si risolva in qualche buona somma di bastonate. Ma ditemi, come state in credito con li banchi?

      Pirino.

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