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per stizza m’ha chiusa in una camera e serrati gli usci e fenestre con chiavistelli: e son tre giorni che non mi dá cibo, e vuol o che vada al dottore o muoia cosí di fame. Sapete bene come è dispettoso e vuol vincer ogni cosa, e io son risoluta e ostinata. Onde pria che la fame m’uccida, m’ucciderá il dolore in pensar solo che non abbia ad esser vostra. Talché fra poco darò il corpo vile alla terra, e a voi resterá lo spirito immacolato e bello per la fede…». Non posso intender piú, sono intenerito di sorte che mi dissolvo tutto in lacrime.

      Forca. Le donne sono di natura tanto dolci che, per duro stia un uomo, l’inteneriscono e lo risolvono in lacrime.

      Pirino. «… Quando sarò portata in chiesa morta, il che fia presto, venite a vedermi; e quando son partite le genti, baciatemi e non abbiate a schivo e in orrore quel corpo ch’è stato albergo d’un’anima vostra divota. Ponetemi le mani al petto, ché troverete certe coselline d’oro, parte donatemi da voi e parte mie, segnali infelici per trovar il mio misero padre: vi priego a ripigliarvele e tenerle appresso di voi, accioché vi rinfreschino la memoria de’ nostri amori. Vi chiedo combiato per questa, ché moro senza vedervi: se vi avessi fatto qualche dispetto, perdonatemi, ché non lo feci mai per propria volontá, ma per pietá che avea della vostra vita e per moderar le vostre passioni, quando scorgeva ch’erano in voi nel maggior colmo; e pregate Iddio per me, ché, avendo tanto patito nella vita, mi dia pace in Cielo doppo la morte». O occhi miei, voi sète di pietra, poiché parole cosí miserabili non ponno cavar da voi vivi fonti di lacrime. Ahi, che moro per non poter morire! O morte, tu vinci tutte le cose e non puoi vincer me! Senza ragione ti chiamano amara, poiché per te si finisce ogni amaritudine. Io sto in vita assai piú amara della morte. Ahi, ruffian rustico, incolto, nemico delle cose belle, hai fatto un gran furto al mondo, celando le sue bellezze. E come resterá il mondo senza lei? Dunque morrá di fame chi potrá dar pastura a mille occhi affamati della sua vista? Sta dunque prigione la vindice della mia libertá e che può carcerar mill’anime con la sua bellezza? tu serrata in tenebre, di cui gli occhi luceno piú d’ogni sole? e dove tu non sei, ivi son oscurissime tenebre? Morrá Melitea, e io resterò vivo? Tu per non essere d’altri hai voluto piú tosto esser della morte; e io che son cagion della tua morte voglio restar in vita? io restar in vita, per la cui vita tu sei morta? orsú, convien morire, e morrò. Ma dove sono? Forca, dove sei? cosí ti dogli delle miserie mie?

      Forca. Taci, la casa di Mangone apre la gola e lo vomita fuori.

      Pirino. Un cibo di cosí cattiva digestione non può digerirlo.

      Forca. Nascondiamoci e ascoltiamo, ché da’ suoi maneggi ne caveremo principio di qualche garbuglio: ogni suo trattamento ne potrebbe giovare.

      SCENA II

      Mangone ruffiano, Filace servo, Pirino, Forca.

      Mangone. Filace, olá, non odi? cala qua giú presto.

      Filace. Eccomi.

      Mangone. Ho inteso che da Ragugia sia venuta una nave carica di schiavi: vo’ andare infino al molo per veder se vi sia cosa da vendere o barattare. Tu resta alla guardia de’ schiavi; ché levandogli gli occhi da sovra, chi nasconde, chi rubba, chi s’empie il ventre e chi machina di fuggire.

      Filace. Andate sicuro, ché non mi smenticherò del mio ufficio.

      Mangone. Se venisse quel di Calabria per la Gobba, digli che non ne chiedo meno di dugento ducati.

      Filace. Voi dovreste pagar chi ve la togliesse di casa: ella è brutta di volto e bruttissima della persona, col mento fitto nel petto, con le reni inarcate, con le groppe uscite fuori, che par che d’ora in ora aspetti la soma.

      Mangone. Non mi mancherá il mio prezzo: conosco l’umore. Quando il martello di amor lavora, batte e cava piú scudi d’ogni martello.

      Filace. Che dirò a quel genovese della Macrina?

      Mangone. Daglila per quel prezzo che vuole: mangia per diece e sta piú magra d’una gatta che mangia lucertole. Ogniun che la vede cosí asciutta stima che in casa mia non si mangi se non biscotto e vi si digiunino tutte le vigilie. Mi ha fatto spendere piú che non vale, per darle tartarughe boglite, suppe la mattina e vuova fresche la sera, quando va a dormire, per ingrassarla; e se la poni nuda incontro al lume, traspare come una lanterna, che se le ponno annoverar l’ossa dentro. Son risoluto farle un buco sotto le reni fra cuoio e pelle e farla gonfiar con un mantice, come si fa a’ buoi vecchi per fargli parer grassi, quando si portano a vendere.

      Filace. Che faremo di Demonica?

      Mangone. Perché è tanto leggiera che con quattro carezzine si lascia volgere come l’uom vòle, lasciamola per quei di bassa mano, per dir che abbiamo una bottega generale ove son mercanzie d’ogni sorte. Io non arei pensato mai che il dottore, essendo vecchio, avesse pagato cinquecento ducati per Melitea: conobbi che l’amava non come quei ch’hanno cervello, ma come quei che ne son privi.

      Filace. I legni vecchi ardono piú volentieri e senza fumo.

      Pirino. (Ascolta, Forca).

      Forca. (Ascolto).

      Mangone. Sia benedetto Iddio, ché son uscito da quel fastidio: mi facea spender un tesoro per comprar muschio, zibetto e profumi. Tutta è ricci e belletti e abbigliamenti e attillature, e tutta cerimonie, però cosí amata da quel napolitano che non è altro che fumo, schiuma, neglia e vento: vivono di nebbia e si pascono di fumo, e chi se impaccia con loro si trova con le mani piene d’aria.

      Filace. Se venisse Forca o Pirino, che dirogli?

      Pirino. (Forca, ascolta bene).

      Forca. (Il vostro dir: «ascolta», non mi fa ascoltar bene: tacete voi e ascoltate).

      Mangone. Guardatevi da loro come dalle serpi! Quando entrano nella strada, non gli levar gli occhi da dosso: se caminano e tu camina, se si fermano e tu ti ferma. Volgi gli occhi dove si volgono, e mira dove mirano: se s’accostano alla casa, sgombra, fuggi, chiudi le porte, serra le fenestre, puntella dietro, tura i buchi, sbalestra gli occhi per ogni cantone, poni tutti gli occhi della casa in agguato: ché di niuno ho tanta paura quanto di loro. Conosco che ne sta innamorato e non ha danari; e non potendola avere con legittimi modi, ordisce furbarie, tenta ogni via, ardisce ogni impresa, non teme rischio o periglio, sta esso in travagli e dá travaglio agli altri: però sta’ in cervello, ché per ogni scappata te la rapisce. Ha quel suo Forca che, se ben spende l’autoritá sua per quel che vale, prosume saper piú di tutti i tristi del mondo.

      Forca. (Fa’ quanto sai, ché ti ingannerò).

      Mangone. In somma, guárdati, perché ho molti inimici.

      Forca. (Perché sei solo amico di te stesso).

      Filace. Morendo smorberá il mondo.

      Mangone. Però vive, ché l’inferno l’abborrisce. Ma faccia quanto può, differirla può ben, ma non fuggir la forca che gli sta apparecchiata.

      Forca. (Ed a te il fuoco).

      Mangone. O come campeggiarebbe bene una forca in mezo due forche!

      Forca. (E tu appresso me, che sei un ladro).

      Mangone. Se venisse alcuna vecchia con qualche scusa, mandala subito via: ché fa piú una ruffiana in una ora, ch’un innamorato in cento anni.

      Filace. Riposatevi nella mia diligenza.

      Mangone. Io vo al molo, al raguseo: entra e sèrrati dietro.

      Filace. Entro e mi serro dietro.

      Forca. (Andiamcene ancor noi).

      SCENA III

      Dottore,

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