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da casa nuova?” domanda.

      Annuisco, e mi sento sollevata nel sentire che la considera già la nostra nuova casa.

      “E c’è un’ultima sorpresa”, dico. “Ma questa la dovrò conservare per la cena”.

      Estraggo il termos dalla cintura e lo metto sulla cappa, fuori dalla sua vista, così che non riesca a vedere cos’è. La vedo che allunga il collo, ma lo nascondo bene.

      “Fidati di me”, dico. “È qualcosa di buono”.

*

      Non voglio che la casa puzzi di pesce, quindi decido di affrontare il freddo e pulire il salmone all’aperto. Prendo il coltello e mi metto al lavoro sul pesce: lo appoggio su un ceppo e mi metto in ginocchio sulla neve, col salmone accanto. Non so davvero quello che sto facendo, ma ne so abbastanza per capire che non si mangiano testa e coda. Quindi inizio tagliandole via.

      Poi intuisco che non si mangiano neanche le pinne, e taglio via anche quelle —né le squame, e cerco di rimuoverle meglio che posso. Dopodiché mi rendo conto che dev’essere aperto per essere mangiato, quindi taglio quanto rimasto esattamente a metà. Si rivela essere bello pieno, rosa dentro, con un sacco di spine. Non so cos’altro fare, e decido che è pronto per essere cucinato.

      Prima di rientrare, sento il bisogno di lavarmi le mani. Mi chino, prendo una manciata di neve e mi ci sciacquo le mani; meno male che c’è la neve – di solito devo camminare fino al ruscello più vicino, considerato che non abbiamo acqua corrente. Mi rimetto in piedi, e prima di entrare mi fermo un momento per assicurarmi che qua fuori sia tutto a posto. All’inizio ascolto, come sempre, in cerca di un qualsiasi segno di rumore, o pericolo. Dopo qualche secondo, mi rendo conto che il mondo non può essere più calmo. Finalmente, lentamente, mi rilasso e respiro profondamente: sento i fiocchi di neve sulle guance, mi godo il silenzio perfetto e realizzo quanto sia meraviglioso l’ambiente che mi circonda. I giganteschi pini sono coperti di bianco, la neve cade senza sosta da un cielo violaceo, e il mondo sembra perfetto, come in una favola. Il caminetto risplende dalla finestra e da qui, la nostra casa sembra il posto più accogliente nel mondo.

      Torno dentro casa con il pesce e chiudo la porta dietro di me: è una bella sensazione entrare in un posto così ben riscaldato, tutto avvolto dalla morbida luce del fuoco. Bree ha badato bene al fuoco, come sempre, aggiungendo ceppi con sapienza, e adesso è ancora più alto. Sta apparecchiando sul pavimento, accanto al caminetto, con coltelli e forchette prese dalla cucina. Sasha si siede premurosamente accanto a lei, osservando ogni sua mossa.

      Porto il pesce sul fuoco. Non so davvero come cucinarlo, quindi decido di tenerlo sul fuoco per un po’, lasciarlo arrostire, girandolo un paio di volte, e sperare che funzioni. Bree mi legge nel pensiero: si dirige immediatamente in cucina e ritorna con un coltello affilato e due lunghi spiedi. Infilza ogni pezzo di pesce, poi prende la sua porzione e la mette sulla fiamma. Seguo il suo esempio. Il senso domestico di Bree è sempre stato superiore al mio e le sono grata per l’aiuto. Siamo sempre state una buona squadra.

      Stiamo entrambe in piedi a fissare le fiamme, paralizzate, tenendo il pesce sul fuoco fino a quando non ci fanno male le braccia. L’odore di pesce riempe la stanza, e dopo circa dieci minuti sento una fitta allo stomaco e inizio a sentirmi impaziente per la fame. Decido che il mio è pronto; dopotutto, ci sono persone che a volte mangiano il pesce crudo, quindi quanto può essere cattivo? Bree sembra d’accordo. Così mettiamo le nostre porzioni sui piatti e ci sediamo sul pavimento, una accanto all’altra, con le schiene sul divano e i piedi verso il fuoco.

      “Attenta”, l’avverto. “Ci sono ancora un sacco di spine dentro”.

      Tolgo le spine e lo stesso fa Bree. Dopo averlo pulito a sufficienza, prendo un pezzetto di carne rosa, calda al tatto, e lo mangio, pronta la peggio.

      Devo dire che è buono. Si potrebbe usare del sale o qualche tipo di condimento, ma almeno sembra cotto, e fresco per quello che è possibile. Sento le tanto attese proteine entrarmi in corpo. Anche Bree divora la sua parte, e vedo la sua faccia sollevata. Sasha si siede accanto a lei, la fissa leccandosi le labbra. Bree sceglie un grosso pezzo, toglie con attenzione le spine e lo dà a Sasha, la quale lo mastica intero e l’ingoia, poi si lecca il muso e si rimette a fissare, sperando di averne ancora.

      “Sasha, qui”, le dico.

      Viene correndo, prendo un pezzetto del mio pesce, tolgo le spine, e glielo do; lo ingoia tutto in pochi secondi. Prima che me ne accorga, il mio pesce è finito – così come quello di Bree – e mi sorprende sentire ancora brontolare il mio stomaco. Vorrei averne preso di più. Tuttavia, questa è stata la più grande cena che abbiamo da settimane e mi sforzo di essere contenta con ciò che abbiamo.

      Poi m ricordo della linfa. Scatto in piedi, tolgo il termos dal suo nascondiglio e lo porgo a Bree.

      “Vai” sorrido, “il primo sorso è tuo”.

      “Che cos’è?” mi chiede, svitandolo e portandoselo al naso. “Non ha l’odore di nient’altro”.

      “È linfa di acero”, le dico. “È come acqua zuccherata. Ma meglio”.

      Prova a sorseggiarla, poi mi guarda, gli occhi spalancati per la gioia. “È delizioso!” esclama. Fa grandi sorsi, poi si ferma e me lo porge. Non posso fare a meno di dare anch’io grandi sorsate. Sento la botta dello zucchero. Mi piego e ne verso con cura un po’ nella ciotola di Sasha; se lo beve tutto e sembra piacere anche a lei.

      Ma sto ancora morendo di fame. In un momento di debolezza, penso al vasetto di marmellata e decido, perché no? Dopotutto, presumo ce ne sia molta altra in quel cottage sulla vetta della montagna – e se abbiamo motivo di festeggiare stasera, allora quando?

      Tiro giù il barattolo, lo svito, ci infilo due dita e ne prendo un bel po’. La metto sulla lingua e me la lascio in bocca più che posso prima di inghiottire. È divina. Allungo il resto del vasetto, ancora mezzo pieno, a Bree. “Vai”, le dico, “finiscilo. Ce n’è ancora nella casa nuova”.

      Gli occhi di Bree si spalancano mentre allunga la mano. “Sei sicura?” mi chiede. “Non dovremmo conservarla?”

      Scuoto la testa. “È ora di trattarsi bene”.

      Bree non ha molto bisogno di essere convinta. In pochi secondi, se la mangia tutta, lasciando soltanto un ultimo boccone per Sasha.

      Ci stendiamo, appoggiate al divano con i piedi verso il fuoco, e sento il mio corpo che inizia a rilassarsi. Tra il pesce, la linfa e la marmellata, finalmente, lentamente, sento le forze che ritornano. Do un’occhiata a Bree, che si è già appisolata, con la testa di Sasha sul grembo, e nonostante sembri ancora malata, per la prima volta da un pezzo scorgo della speranza nei suoi occhi.

      “Ti voglio bene, Brooke”, dice dolcemente.

      “Anch’io ti voglio bene”, le rispondo.

      Ma il tempo di guardarla, e dorme già profondamente.

*

      Bree è stesa sul divano di fronte al fuoco, e io mi seggo adesso sulla sedia accanto a lei; è un’abitudine che ci siamo prese col passare dei mesi. Ogni notte, prima di andare a letto, si rannicchia sul divano, troppo spaventata per addormentarsi da sola nella stanza. Le faccio compagnia, aspettando che si appisola; poi la porterò a letto. La maggior parte delle notti non abbiamo il fuoco, ma ci sediamo lì lo stesso.

      Bree ha sempre incubi. Non era ne aveva prima: ricordo il tempo, prima della guerra, in cui si addormentava facilmente. La prendevo in giro, la chiamavo “Bree ora di nanna” visto che si addormentava in macchina, sul divano, leggendo un libro sulla sedia – ovunque. Ma ora non è per niente come prima; adesso rimane sveglia per ore, e quando dorme, è irrequieta. Molte notti sento i suoi piagnucoli o le sue urla attraverso i muri sottili. Come biasimarla? Con l’orrore che abbiamo visto, è stupefacente che non si sia persa del tutto. Troppe notti riesco a malapena a dormire io.

      L’aiuta quando leggo per lei. Fortunatamente, quando siamo fuggiti, Bree ha avuto la prontezza di afferrare il suo libro preferito. L’Albero. Glielo leggo ogni notte. Lo conosco perfettamente ormai, e quando sono stanca, a volte chiudo gli occhi e lo recito a memoria. Fortunatamente, è breve.

      Mi appoggio alla sedia – sento

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