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la nostra nazione unita”.

      “Oh, allora scusami, Mister America!” gli gridò ancora lei. “Puoi giustificarti così nella tua testa, ma la verità è che te ne vai perché non mi sopporti. Perché non ci hai mai saputo fare con la vita domestica. Perché sei troppo stupido per fare qualcosa della tua vita senza il Corpo dei Marine. Così alla prima occasione scatti in piedi e scappi via —”.

      Papà la interruppe con un pesante schiaffo in faccia. Mi sembra di sentire ancora il rumore.

      Ero sconvolta; non gli avevo mai visto alzarle una mano prima. Sentii il vento abbattersi su di me, come se fossi stata schiaffeggiata io. Lo fissai, e quasi non lo riconoscevo. Quello era davvero mio padre? Rimasi così sbalordita che feci cadere il mio libro e questo toccò terra con un tonfo.

      Si girarono tutti e due e mi guardarono. Mi girai mortificata e corsi per il corridoio fino in camera mia sbattendo la porta dietro di me. Non sapevo come reagire a tutto quello e dovevo allontanarmi da loro.

      Pochi istanti dopo, sento bussare piano alla mia porta.

      “Brooke, sono io”, disse papà con voce delicata e piena di rimorso. “Mi dispiace che hai dovuto vedere questo. Per favore, lasciami entrare”.

      “Vai via!” gli urlai.

      Seguì un lungo silenzio. Ma non se n’era ancora andato.

      “Brooke, devo andarmene adesso. Mi piacerebbe vederti un’ultima volta prima che vada. Ti prego. Vieni fuori a salutarmi”.

      Mi misi a piangere.

      “Vai via!” Gli risposi bruscamente. Ero così sopraffatta, così in collera con lui per avere colpito mamma, e anche di più per starci abbandonando. E nel profondo, avevo paura che non sarebbe mai tornato.

      “Sto andando, Brooke” disse. “Non devi per forza aprire la porta. Ma voglio che tu sappia quanto ti voglio bene. E che sarò sempre con te. Ricordati, Brooke, tu sei quella forte. Prenditi cura di questa famiglia. Conto su di te. Prenditi cura di loro”.

      Poi sentii i passi di mio padre che si allontanavano. Si facevano sempre più tenui. Pochi istanti dopo sentii la porta d’ingresso aprirsi, e poi chiudersi.

      Quindi, il nulla.

      Dopo pochi minuti – che sembrarono giorni – aprii lentamente la mia porta. L’avevo già percepito. Se n’era andato. E già me n’ero pentita; avrei voluto salutarlo. Perché me lo sentivo, nel profondo, che non sarebbe mai ritornato.

      Mamma stava seduta al tavolo della cucina, con la testa fra le mani, e piangeva sommessamente. Sapevo che le cose erano cambiate definitivamente quel giorno, che niente  sarebbe mai stato lo stesso – che lei non sarebbe mai stata la stessa. E neanch’io.

      E avevo ragione. Mentre sto qui seduta a fissare le braci del fuoco morente, gli occhi pesanti, mi rendo conto che, da quel giorno, niente sarebbe mai stato lo stesso, di nuovo.

*

      Sono in piedi nel nostro vecchio appartamento, a Manhattan. Non so cosa ci faccio qui, o come ci sono arrivata. Niente sembra avere senso, perché l’appartamento non è affatto come lo ricordo. È del tutto privo di mobili, come se non c’avessimo mai vissuto. Ci sono solo io.

      Improvvisamente bussano alla porta, ed entra papà, in completa uniforme, e in mano una ventiquattrore. I suoi occhi sembrano svuotati, come se fosse andato e tornato dall’inferno.

      “Papi!” Provo a gridare. Ma le parole non escono. Guardo in basso e mi accorgo che sono incollata al pavimento, nascosta dietro a un muro, e che non può vedermi. Per quanto mi sforzi di liberarmi, correre da lui, urlare il suo nome, non ci riesco. Sono costretta a guardare impotente, mentre entra nell’appartamento vuoto e si osservando attorno.

      “Brooke?” urla. “Sei qui? C’è nessuno in casa?”

      Provo nuovamente a rispondergli, ma la voce non vuole uscire. Cerca stanza per stanza.

      “L’ho detto che sarei tornato” disse. “Perché non mi ha aspettato nessuno?”

      Poi, scoppia in lacrime.

      Mi spezza il cuore, e provo con tutte le forze a richiamarlo. Ma non importa quanto forte mi sforzi: non esce niente.

      Alla fine si gira e lascia l’appartamento, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé. Lo scatto della maniglia riecheggia nel vuoto.

      “PAPI!” Urlo, trovando finalmente la voce.

      Ma è troppo tardi. So che se n’è andato per sempre, e in qualche modo è tutta colpa mia.

      Sbatto le palpebre e sono di nuovo in montagna, nella casa di papà, seduta sulla sua sedia preferita accanto al fuoco. Papà è seduto sul divano, sporto in avanti, il capo chino, a giocare col suo coltello del Corpo dei Marine. Rimango atterrita nel notare che metà della sua faccia è completamente sciolta, fino alle ossa; riesco praticamente a vedere metà del suo teschio.

      Guarda verso di me, ho paura.

      “Non puoi nasconderti qui per sempre, Brooke”, dice, con tono pacato. “Pensi di essere al sicuro qui.” Ma verranno a cercarti. Prendi Bree e nasconditi”

      Si mette in piedi, viene verso di me, mi afferra dalle spalle e mi scuote, mentre i suoi occhi bruciano intensamente. “MI HAI SENTITO, SOLDATO!?” grida.

      Scompare, e appena lo fa, tutte le porte e le finestre esplodono in un sol colpo, in una cacofonia di vetri in frantumi.

      In casa irrompono una dozzina di mercanti di schiavi, con le pistole in mano. Indossano la loro caratteristica uniforme, nera dalla testa ai piedi, con maschere nere, e corrono a tutti gli angoli della casa. Uno di loro tira Bree giù dal divano e la porta via fra le urla, mentre un altro corre verso di me, affonda le dita sul mio braccio e mi punta la pistola dritto in faccia.

      Spara.

      Mi sveglio gridando, confusa.

      Sento le dita che affondano sul mio braccio, e disorientata tra lo stato di sogno e la realtà, sono pronta a reagire. Mi osservo in giro e vedo che è Bree che mi scuote il braccio.

      Sono ancora seduta sulla sedia di papà, e la stanza adesso è inondata dalla luce del sole. Bree piange a dirotto.

      Sbatto gli occhi diverse volte mentre mi siedo, provando a connettermi col mondo. Era stato tutto un sogno? Sembrava così reale.

      “Ho fatto un brutto sogno!” Piange Bree, sempre attaccata al mio braccio.

      Mi osservo in giro e vedo che il fuoco è finito tempo fa. Vedo l’intensa luce del sole e realizzo che che dev’essere mattina tardi. Non riesco a credere che mi sono addormentata sulla sedia – non l’avevo mai fatto prima.

      Scuoto la testa, provando a ripulirla dalle ragnatele. Quel sogno sembrava così reale, è difficile credere che non sia accaduto. Avevo sognato papà prima di adesso, parecchie volte, ma mai niente di tanto realistico. Mi viene difficile concepire che adesso non è più nella stanza con me; controllo di nuovo la stanza, giusto per essere sicura.

      Bree mi tira il braccio, inconsolabile. Non l’ho davvero mai vista stare così.

      Mi metto in ginocchio e le do un abbraccio. Lei si avvinghia a me.

      “Ho sognato che questi uomini cattivi venivano e mi portavano via! E non c’eri tu a salvarmi!” piange Bree sulla mia spalla. “Non andare!” implora sconvolta. “Ti prego, non andare. Non lasciarmi!”.

      “Non vado da nessuna parte”, le dico, abbracciandola stretta. “Sshh… È tutto OK… Non c’è niente di cui preoccuparsi. È tutto a posto”.

      Ma nel profondo, non posso fare a meno di sentire che non c’è niente a posto. È proprio il contrario. Il sogno che ho fatto mi sta proprio disturbando, e il fatto che anche Bree ha avuto un brutto sogno – e sulla stessa cosa – non mi conforta. Non sono credo particolarmente nei presagi, ma non posso fare a meno di chiedermi se non sia tutto un segno. Non sento però nessun tipo di rumore né altro, e se ci fosse qualcuno nel raggio di un chilometro,

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