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testa ripasso quello che farò se vedo il cervo: mi alzo lentamente, prendo la mira e lancio il coltello. Prima penso di puntare l’occhio, ma poi decido di mirare alla gola: se lo manco di pochi pollici, ci sarà la possibilità di colpirlo da qualche altra parte. Se le mie mani non sono troppo gelate, e se sono precisa, immagino che forse, forse, riesco a ferirlo. Ma mi rendo conto che sono tutti dei grossi “se”.

      I minuti passano. Dieci, venti, trenta…. Il vento va morendo, poi riappare a raffiche, e mentre lo fa, sento leggeri fiocchi di neve dagli alberi soffiano sulla mia faccia. Più il tempo passa, e il freddo aumenta, più m’intirizzisco, e inizio a pensare se non sia stata una cattiva idea. Ma sento un’altra tagliente fitta per la fame, e so che devo provarci. Avrò bisogno di tutte le proteine possibili se voglio cambiare casa – soprattutto se devo spingere la motocicletta in salita.

      Dopo quasi un’ora di attesa, sono completamente congelata. Non so se arrendermi o dirigermi giù per la montagna. Magari dovrei ritentare con la pesca.

      Decido di alzarmi e fare un giro per riattivare la circolazione degli arti e recuperare sensibilità alle mani; se avessi bisogno di usarle adesso, probabilmente sarebbero inutili. Come mi alzo in piedi, sento ginocchia e schiena rigide farmi male. Mi metto a camminare nelle neve, iniziando con piccoli passi. Sollevo e piego le mie ginocchia, torco la schiena a destra e a sinistra. Rinfilo il coltello nella cintura, poi mi sfrego le mani e ci soffio sopra ripetutamente, tentando di ritrovare sensibilità.

      All’improvviso, mi blocco. In lontananza, un ramoscello si spezza di colpo, e percepisco il movimento.

      Mi giro lentamente. In cima alla salita appare un cervo. Cammina lentamente, passo passo, nella neve, sollevando e poggiando gli zoccoli delicatamente. Abbassa la testa, mastica una foglia, poi con attenzione fa un altro passo in avanti.

      Il cuore mi batte elettrizzato. Raramente mi capita di sentire che papà è con me, ma oggi, lo sento. Riesco a sentire la sua voce in testa in questo momento: Piano. Respira lentamente. Non fargli sapere che sei qui. Stai concentrata. Se riesco ad abbattere quest’animale, avremo cibo – cibo vero – per Bree, Sasha e me per almeno una settimana. Ci serve.

      Fa un altro paio di passi verso la radura e io ottengo una migliore visuale: è un grosso cervo, e si trova a una trentina di metri. Mi sentirei molto più sicura se fosse stato a dieci metri, o anche venti. Non so se riesco a colpirlo a questa distanza. Se ci fosse stato più caldo, e lui non si stava muovendo, allora sì. Ma ho le mani intorpidite, il cervo si sta muovendo ed è pieno di alberi da quella parte. Non lo so. Quello che so è che se lo manco, non tornerà mai più qui.

      Aspetto, lo studio, ho paura di spaventarlo. Vorrei che si avvicinasse di più. Ma non sembra volerlo fare.

      Rifletto su cosa fare. Posso attaccarlo, avvicinandomi il più possibile, e poi lanciare. Ma sarebbe stupido: dopo neanche un metro, scapperebbe di sicuro. Forse dovrei provare ad avvicinarmici furtivamente. Ma dubito che anche questo funzionerebbe. Il minimo rumore, ed è andato.

      E allora rimango qua, a riflettere. Faccio un piccolo passo in avanti, mettendomi in posizione per lanciare il coltello, nel caso dovessi farlo. E quel piccolo passo è il mio errore.

      Un ramoscello si spezza sotto i miei piedi, il cervo solleva immediatamente la testa e si gira verso di me. I nostri sguardi si incrociano. So che mi vede e che è sul punto di scappare via. Il cuore martella, so che è la mia sola possibilità. La mente è in blocco.

      Poi agisco fulminea. Allungo il braccio, afferro il coltello, faccio un gran passo in avanti, e con tutta la mia bravura, tendo indietro il braccio e lo lancio, mirando alla gola.

      Il pesante coltello del Corpo dei Marine di papà gira su sé stesso nell’aria, e prego che non colpisca un albero. Guardarlo roteare, con la luce che riflette, è un momento di vera bellezza. Nello stesso istante, vedo il cervo voltarsi e iniziare a correre.

      Sono troppo lontana per vedere esattamente cosa succede, ma un attimo dopo, sono sicura di sentire il suono del coltello che entra nella carne. Il cervo scappa però, e non so dire se è ferito.

      Gli corro dietro. Raggiungo il punto in cui si trovava, e mi sorprende notare una chiara macchia di sangue sulla neve. Sento il cuore battere di speranza.

      Seguo la traccia di sangue e corro a più non posso, saltando sulle rocce. Dopo una cinquantina di metri, lo vedo: eccolo qua, crollato sulla neve, steso sul fianco, con le gambe contratte. Vedo il coltello conficcato nella gola. Esattamente il punto a cui stavo mirando.

      Il cervo è ancora vivo, e non so come porre fine alle sue sofferenze. Lo sento soffrire, e mi sento un mostro. Vorrei dargli una morte veloce ed indolore, ma non so come.

      Mi metto in ginocchio ed estraggo il coltello, poi mi piego, e con un movimento rapido, faccio un taglio profondo lungo la gola, sperando che funzioni. Dopo pochi istanti, sgorga fuori il sangue, e alla fine le gambe del cervo smettono di muoversi. Anche i suoi occhi smettono di agitarsi: finalmente so che è morto.

      Mi alzo, con gli occhi fissi in basso e il coltello in mano, e mi sento assalire dal senso di colpa. Mi sento crudele nell’avere ucciso una creatura così bella e indifesa. In questo momento, non riesco a pensare a quanto bisogno avevamo di questo cibo, a quanto sono fortunata ad averlo cacciato. Tutto quello che riesco a pensare è che, soltanto pochi minuti prima, respirava, vivo, davanti a me. E che adesso, è morto. Guardo giù verso il cervo, ancora perfettamente steso sulla neve, e nonostante tutto, mi vergogno.

      È questo il momento in cui lo sento per la prima volta. All'inizio lo respingo, presumendo che devo essermelo sognata, perché non è proprio possibile. Ma subito dopo, torna un po’ più forte, più distinto, e so che è reale. Il mio cuore si mette a battere all’impazzata , considerato che riconosco quel rumore. È un rumore che quassù prima ho sentito solo una volta. È il sibilo di un motore. Un motore di automobile.

      Rimango lì attonita, troppo gelata anche per muovermi. Il motore si fa più forte, più distinto, e so che può voler dire una cosa sola. Mercanti di schiavi. Nessun altro oserebbe arrivare fin quassù, né avrebbe motivo di farlo.

      Parto di scatto, lascio il cervo e mi lancio attraverso gli alberi, oltre il cottage, giù per la discesa. Non sono abbastanza veloce. Penso a Bree, sola a casa, mentre il rumore dei motori si fa sempre più forte. Provo ad aumentare la velocità, scendo di corsa per il pendio nevoso, incespicando, col cuore che mi batte in gola.

      Corro così veloce che cado, di faccia, sbucciandomi ginocchio e gomito, e restando senza fiato. Mi rimetto in piedi, e noto il sangue sul ginocchio e sul braccio, ma non m’importa. Mi sforzo e mi rimetto in moto, quindi riprendo a correre.

      Scivolando di continuo, raggiungo finalmente l’altopiano: da qui posso vedere tutta la montagna giù fino a casa nostra. Il cuore mi balza in gola: sulla neve ci sono chiare tracce di macchina che portano dritto a casa nostra. La porta d’ingresso è aperta. E, cosa più inquietante di tutte, non sento Sasha abbaiare.

      Scendo di corsa, sempre più giù, e nel farlo do una bella occhiata ai due veicoli parcheggiati fuori casa: le auto dei mercanti di schiavi. Tutte nere, a poca altezza da terra, sembrano muscle car alla potenza, con enormi gomme e sbarre ai finestrini. Impresso sui loro cappucci c’è lo stemma dell’Arena Uno, inconfondibile perfino da qui – un diamante con uno sciacallo in mezzo. Sono qui per rifornire l’arena.

      Scatto nuovamente giù per la collina. Mi devo alleggerire. Infilo le mani nelle tasche, tiro fuori i barattoli di marmellata e li getto a terra. Sento il vetro rompersi dietro di me, ma non m’importa. Niente importa adesso.

      Sono lontana quasi cento metri quando vedo i veicoli partire e iniziare a lasciare casa mia. Ritornano giù per la tortuosa strada di campagna. Voglio scoppiare a piangere appena realizzo quello che è successo.

      In trenta secondi raggiungo la casa, la supero, e corro dritta per la strada, sperando di raggiungerli. So già che la casa è vuota.

      Sono arrivata troppo tardi. Le tracce dell’auto parlano chiaro. Se guardo giù la montagna, riesco a vederli, lontani già mezzo chilometro, e sempre più veloci. È impossibile raggiungerli a piedi.

      Ritorno in casa, giusto nel caso in cui, per qualche remota possibilità,

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