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un altro sguardo in alto verso la montagna, e decido di proseguire. Testa bassa e inizio l’escursione, portandomi appresso la canna.

      Ogni passo è doloroso, come un milione di aghi affilati che mi pulsano nelle cosce, senza contare l’aria ghiacciata che mi perfora i polmoni. Il vento si fa più violento e la neve arriva a frustate, come carta vetrata sulla faccia. In alto un uccello di mette a gracchiare, quasi volesse deridermi. Proprio quando sento di non riuscire più a fare più un solo passo, raggiungo l’altopiano successivo.

      Si trova molto in alto, ed è diverso da tutti gli altri: è pieno zeppo di alberi di pino, che rendono difficile vedere al di là di due tre metri. Il cielo rimane tagliato fuori da questa enorme cupola, e la neve è ricoperta di aghi verdi. Gli enormi tronchi riescono a bloccare anche il vento. Mi sembra di essere entrata in un piccolo regno privato, nascosto dal resto del mondo.

      Mi fermo, mi giro, e mi godo il panorama: la vista è stupefacente. Avevo sempre pensato che c’era una vista grandiosa da casa di papà, a metà strada sulla montagna, ma da qui, sulla cima, è spettacolare. I picchi di montagna si elevano in ogni direzione, e in lontananza riesco anche a vedere il fiume Hudson che brilla. Vedo anche le vie tortuose che si fanno strada attraverso la montagna, straordinariamente intatte. Probabilmente perché pochissime persone salgono di qua. Non ho infatti mai visto un’auto né nessun altro veicolo. Nonostante la neve, le strade si vedono bene. Sono strade spigolose e scoscese, battute dal sole e perfette per drenare; il grosso di quella neve si è sorprendentemente sciolto.

      Di colpo, un cattivo pensiero mi assale. Preferisco le strade quando sono ghiacciate e ricoperte di neve, impraticabili per i veicoli, poiché di questi tempi le sole persone che hanno automobili e carburante sono i mercanti di schiavi – gli spietati cacciatori di taglie che lavorano per sfamare l’Arena Uno. Pattugliano ovunque, cercano i sopravvissuti, per rapirle e portarli all’arena come schiavi. Mi hanno detto che là li fanno combattere fino alla morte, per divertimento.

      Bree e io siamo state fortunate. Negli anni passati quassù non abbiamo visto alcun mercante di schiavi – ma credo sia soltanto perché viviamo tanto in alto, in una zona tanto distante. Una sola volta ho sentito il rumore acuto del motore di un mercante di schiavi, a grande distanza, dall’altro lato del fiume. So che sono laggiù, da qualche parte che pattugliano. E non corro alcun rischio – mi assicuro di tenere un basso profilo, senza quasi mai bruciare legno a meno che non ne abbiamo bisogno, e tenendo tutto il tempo d’occhio Bree. La maggior parte delle volte la porto a cacciare con me – l’avrei fatto anche oggi se non fosse così malata.

      Torno verso l’altopiano e punto gli occhi sul lago più piccolo. È tutto ghiaccio, e scintilla nella luce del pomeriggio come un gioiello smarrito, nascosto dietro una macchia di alberi. Mi ci avvicino, facendo qualche passo di prova sul ghiaccio per assicurarmi che non si rompa. Come lo sento solido, ne faccio qualcun altro. Trovo un punto, estraggo la piccola accetta dalla cintura e inizio a picconare il ghiaccio, un colpo dopo l’altro. Si forma un’incrinatura. Estraggo il coltello, mi metto in ginocchio e do un colpo più forte, esattamente al centro della spaccatura. Lavoro con la punta del coltello e faccio un piccolo foro, grande abbastanza per estrarre un pesce.

      Scivolando, torno di corsa verso la riva, fisso la canna da pesca tra i due rami di un albero e srotolo la cordicella, quindi torno verso il buco e vi calo dentro il filo. Strattono un paio di volte, sperando che il riflesso dell’amo di metallo possa attrarre una qualche creatura vivente che sta sotto il ghiaccio. Ma non riesco a non pensare che è uno sforzo inutile, che qualsiasi cosa vivesse in queste laghi di montagna è morta da tempo.

      Fa anche più freddo quassù e non posso restare qua a guardare la corda. Devo continuare a muovermi. Mi volto dall’altra parte e mi allontano dal lago; il mio lato superstizioso dice che potrei prendere un pesce solo se non rimango lì a fissare. Mi metto a girare in tondo attorno agli alberi,  sfregandomi le mie mani per cercare di riscaldarle. Qualcosa fa.

      È a questo punto che mi viene in mente il legno secco. Guardo per terra alla ricerca di ramoscelli, ma è inutile. Il suolo è coperto di neve. Guardo gli alberi in alto, e mi accorgo che anche tronchi e rami sono coperti di neve. Ma un po’ più in là scorgo qualche albero spazzato dal vento e libero dalla neve. Ci vado, osservo la corteccia, ci faccio scorrere sopra la mano. Sono contenta nel vedere che alcuni dei rami sono asciutti. Prendo l’accetta e taglio uno dei rami più grandi. Tutto quello che mi serve è un po’ di legno, e questo grosso ramo è perfetto.

      Come si stacca, lo afferro, senza lasciarlo cadere sulla neve, poi lo poggio contro il tronco e lo spacco a metà. Ripeto l’operazione fino a quando non ottengo una piccola pila di ramoscelli che posso portare fra le braccia. La sistemo nell’angolo di un ramo, protetta all’asciutto dalla neve sottostante.

      Mi guardo intorno e osservo gli altri tronchi; guardo più vicino e qualcosa mi lascia perplessa. Mi avvicino a uno degli alberi, e guardando più attentamente mi accorgo che la sua corteccia è diversa dalle altre. Controllo bene e mi accorgo che non è un pino; è un acero. Mi sorprende vedere un acero così in alto quassù, e sono anche più sorpresa nel riuscire a riconoscerlo. Un acero è infatti la sola cosa in natura che sarei in grado di riconoscere. Senza volerlo, emerge un ricordo.

      Una volta, quando ero piccola, mio papà si era messo in testa di portarmi a fare un giro nella natura. Dio sa perché, mi ha portato a picchiettare gli alberi di acero. Abbiamo guidato per ore in un angolo del paese dimenticato da Dio; io avevo un secchio di metallo, lui un beccuccio, e abbiamo passato ore

      con una guida vagando fra gli alberi, alla ricerca degli aceri perfetti. Ricordo lo sguardo di delusione sul suo volto dopo aver picchiettato il suo primo albero e aver visto del liquido chiaro colare nel secchio. Pensava fosse sciroppo.

      La guida si mise a ridere, e gli disse che gli alberi di acero non producevano sciroppo—producevano linfa. La linfa doveva essere condensata per diventare sciroppo. Era un processo che richiedeva ore, disse. Ci sono voluti circa 80 galloni di linfa per ottenere un litro di sciroppo.

      Papà guardò il secchio traboccante di linfa che aveva in mano e divenne rosso dalla rabbia, come se qualcuno gli avesse appena venduto una partita di merce avariata. Era l’uomo più orgoglioso che avessi mai incontrato, e se c’era qualcosa che odiava più di sentirsi stupido, era che qualcuno si prendesse gioco di lui. Quando l’uomo si mise a ridere, lui gli tirò addosso il secchio, mancandolo di un niente, mi prese la mano e ce ne andammo via con furia.

      Dopo quella volta, non mi portò più a fare giri nella natura.

      In fondo, non m’importava – e anzi mi era piaciuta la gita, anche se in auto è stato zitto furibondo per tutto il tragitto di ritorno a casa. Ero riuscita a raccogliere un po’ di linfa prima che mi afferrasse per andarcene, e mi ricordo che la sorseggiai di nascosto in macchina di ritorno a casa, mentre lui non guardava. Mi piacque tantissimo. Sapeva di acqua zuccherata.

      Adesso sono qui davanti a quest’albero e lo riconosco come si riconoscerebbe un fratello. Quest’acero è così alto, esile e malridotto, che mi sorprenderebbe trovare anche solo poca linfa. Ma non ho niente da perdere. Tiro fuori il coltello e colpisco ripetutamente l’albero nello stesso punto. Poi scavo nel buco, affondando sempre più il coltello, girandolo e ruotandolo di continuo. In realtà non mi aspetto che succeda niente.

      Rimango scioccata quando fuoriesce una goccia di linfa. E ancora più scioccata quando, pochi istanti dopo, le gocce si trasformano in un piccolo scolo. Tendo il dito, lo bagno e la porto alla lingua. Sento subito lo zucchero, e riconosco il gusto. Proprio come me lo ricordavo. Non riesco a crederci.

      Ora la linfa gocciola più velocemente, e ne sto perdendo un bel po’ che scivola giù per il tronco. Cerco disperatamente qualcosa attorno per raccoglierla, un qualche contenitore – ma ovviamente non c’è niente. Poi mi ricordo: il termos. Tiro il termos di plastica fuori dalla cintura e lo capovolgo, per svuotarlo dall’acqua. Posso prendere acqua dolce ovunque, soprattutto con tutta questa neve – ma questa linfa è preziosa. Tengo il termos vuoto a filo sull’albero, sperando in un flusso adeguato. Spingo la plastica il più radente possibile al tronco, e riesco a prenderne il grosso. Si riempie più lentamente di quanto vorrei, ma in pochi minuti, sono riuscita a riempire mezzo termos.

      Il flusso di linfa si ferma. Aspetto qualche secondo,

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