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«altro» scaturisce una particolare tensione vitale, un’esaltata ed esaltante effervescenza. La vitalità della commedia è scatenata proprio da un distanziamento che è nello stesso tempo un avvicinamento, con la promessa del proiettarsi del caos imprevedibile dell’esistere in una possibile integrazione dell’esperienza, in un esito «felice», che peraltro non equivale necessariamente ad un lieto fine. L’esito felice, in fondo, quale che sia la sua conseguenza rispetto alle forze in gioco, afferma e realizza nella «chiusura» della forma culturale quel finale acquisto di un senso definitivo che non è possibile nell’esperienza reale: il concludere del-la commedia, tra integrazioni ed espulsioni, fa da specchio all’inevitabile non concludere della vita.

      Nel saluto agli spettatori, ripreso dall’antico valete et plaudite, la nuova commedia rinascimentale, ribadisce questa conclusività, ne afferma il rilievo, anche con particolari giochi allusivi: ma poi, in quel vario sviluppo «moderno», si possono dare vari modi di scalzare la conclusione, di renderla problematica, eterogenea, aperta, fino a romperne l’equilibrio. È inevitabile d’altra parte, che anche il più radicale rifiuto della conclusione, anche la più determinata tensione verso l’opera aperta, non possa in nessun modo prescindere da una chiusura dello spazio mimetico creato, dell’orizzonte drammatico costruito: non può evitare di mettere fine al tempo della finzione.

      Il tracciato dei convegni organizzati da Federico Doglio permette di toccare, in una prospettiva integralmente europea, tanti nodi essenziali nel percorso che ha condotto all’imporsi di questa vitalità della commedia come genere per eccellenza «moderno»: percorso in cui il rinascimentale ritorno dell’antico è sostenuto da modalità e tensioni comiche, da tradizioni ed esercizi della parola e del gesto comico variamente sviluppatisi nel Medioevo. Si tratta di un panorama ricchissimo, che conduce dal dialogo che il Medioevo comunque intrattiene con il comico degli antichi (tema del terzo convegno, del 1978, L′eredità classica nel medioevo: il linguaggio comico) al propagarsi europeo di quell’originalissimo sviluppo della «nuova» commedia rinascimentale dato dall’improvvisa (tema del convegno del 2008, il trentaduesimo, Fortuna Europea della Commedia dell′Arte), fenomeno davvero «moderno», matrice di tanta teatralità dei secoli successivi (a parte l’assoluta modernità del definirsi della figura dell’attore nei termini di una piena professionalità). Passaggi intermedi di questo percorso sono i volumi dedicati al decimo convegno, 1986 (Teatro comico fra Medio Evo e Rinascimento: la farsa), al tredicesimo, 1989 (Il Carnevale: dalla tradizione arcaica alla traduzione colta del Rinascimento), al diciassettesimo, 1993 (Origini della Commedia nell’Europa del Cinquecento), al diciannovesimo, 1995 (Origini della Commedia Improvvisa o dell’Arte), al venticinquesimo, 2001 (Satira e beffa nelle commedie europee del Rinascimento).

      Percorrere questi volumi offre densissime e cruciali immagini della storia della commedia europea, della sua ramificata vitalità, dei mille rivoli da cui essa scaturisce e in cui si espande nella travagliata vita storica del continente. In omaggio alla sede ispanica in cui ci troviamo a festeggiare Federico Doglio, ricorderò brevemente il rilievo della presenza spagnola, citando i saggi che nei diversi volumi riguardano il teatro comico spagnolo (e tralascio il grande rilevo che questo ha nelle rassegne bibliografiche che accompagnano molti di questi volumi).

      Se nel convegno del 1978 si affaccia Raymundo Lull nel saggio di Annibale Gianuario su «Metrica classica e ricerca fonico-musicale seguendo Plutarco, Raymundo Lull e Antonio Lull» (pp. 281-290), che non ha dirette tangenze con la commedia, in quello del 1986 sulla farsa due saggi toccano l’ambito spagnolo: Humberto López Morales —«Parodia y caricatura en los orígenes de la farsa castellana» (pp. 211-226)— tratta di un libro del 1514 in cui per la prima volta nel suolo di Castiglia appare la parola farsa, la raccolta delle Farsas y églogas al modo y estilo pastoril y castellano di Luca Fernández; Javier Huerta Calvo —«El entremés o la farsa española» (pp. 227-266)— con dovizia di rilievi strutturali mette in luce il rapporto e quasi identificazione tra il primitivo entremés e la farsa. Negli atti del convegno «carnevalesco» del 1989 Ana Vian Herrero, —«Una aportación hispánica al teatro carnavalesco medieval y renacentista: las Églogas de Antruejo de Juan del Encina» (pp. 121-148)— analizza testi di grande interesse risalenti alla fine del XV secolo. Nel convegno del 1993 il saggio di Manuel Fernández Nieto —«La comicidad del teatro español del siglo XVI según Augustín de Rojas» (pp. 145-160)— estrae spunti di grande interesse da un’opera di difficile classificazione, El viaje entretenido di Augustín de Rojas, apparsa all’inizio del XVII secolo, mentre la presenza del teatro ariostesco in Spagna (a partire da una rappresentazione dei Suppositi a Valladolid nel 1548) viene illuminata dal saggio di Manuel V. Diago: «Una adaptación española de Il Negromante de Ariosto: La comedia llamada Carmelia de Joan Timoneda» (pp. 161-176). Il convegno del 1995 con il saggio di Monica Pavesio —«La vie est un songe tragicommedia francese del Settecento: punto di incontro fra la “Comedia” spagnola e la Commedia dell’Arte italiana» (pp. 389-414)— presenta il singolare caso di una tragicommedia apparsa nel Nouveau théâtre italien di Luigi Riccoboni che risale al capolavoro di Calderón attraverso tutta una serie di adattamenti e trasformazioni intermedie. Nel convegno del 2001 viene toccata l’opera di un autore di ventotto testi denominati farsas, risalenti al secondo quarto del Cinquecento, da Miguel Ángel Pérez Priego con «La sátira en las farsas de Diego Sánchez de Badajoz» (pp. 159-180), mentre in quello del 2008 è proprio la nostra Irene Romera Pintor —«La impronta española en la nueva vía gozziana: Cimene Pardo, de la Commedia dell’Arte al drama» (pp. 59-87)— a mettere in luce un particolare e suggestivo aspetto dell’impronta spagnola nel teatro di Carlo Gozzi, impronta che viene dall’eco di una vicenda della Spagna del XII secolo, passata attraverso svolgimenti e trasformazioni date nell’ambito della Commedia dell’Arte.

      E tra trasformazioni, metamorfosi, divagazioni, mi piace concludere questo piccolo omaggio alla vitalità della commedia e alla vitalità di Federico Doglio ricordando, in questo anno cervantino, che alla fine della Primera parte del Don Quijote viene messa in bocca al curato, nella discussione che intrattiene con il canonico incontrato nel viaggio che riconduce a casa il folle hidalgo, una riflessione sulla commedia, in stretta polemica con le forme «irregolari» del contemporaneo teatro spagnolo (uno dei cui obiettivi impliciti è naturalmente Lope de Vega): e tra l’altro il curato ribadisce una definizione della commedia, che tante volte si incontra nei saggi ad essa dedicati negli importanti volumi a cui qui si è accennato «habiendo de ser la comedia, según le parece a Tulio, espejo de la vida humana, ejemplo de las costumbres y imagen de la verdad» (Don Quijote, I, 48).

      Formes du théâtre, religion et société

      Marie-Madeleine Fragonard

       Sorbonne Nouvelle-Paris III

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