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lo era grazie al ritmo naturale delle attività che dava spazi alle relazioni umane e consentiva interruzioni legate a necessità personali. Il tempo del lavoro si identificava con quello della vita, l’uno era parte dell’altro. Allora non esisteva il nostro concetto di tempo libero: il tempo dello svago non si contrapponeva a quello del lavoro ma alla continua fatica di vivere; la possibilità di prendersi consolazione poteva investire qualsiasi momento del quotidiano, non solo nelle ore e nei giorni di festa ma anche in quelli della bottega.5

      Gli studi che ho condotto su registri contabili di molte aziende mi hanno convinto del fatto che il ritmo del lavoro fosse estremamente diseguale. Diseguale l’intensità con cui ci si applicava alla produzione, diseguale il numero delle giornate lavorative nel mese. Ciò dipendeva non solo dalla diversa distribuzione dei giorni festivi, ma anche da altri fattori come i comportamenti della committenza che poteva provocare brusche accelerazioni e nuovi freni al lavorio della bottega; anche l’avvicendarsi delle stagioni e le cadenze della campagna potevano provocare mutamenti dei ritmi con il temporaneo trasferimento di manodopera cittadina. Gli stessi artigiani, spesso piccoli proprietari, erano talvolta costretti a lasciare la bottega per recarsi nella loro presa di terra.

      Insomma questi uomini, legati da un contratto a tempo determinato, entravano o uscivano dai laboratori d’accordo con il proprietario e nel rispetto delle esigenze del laboratorio.

      Possiamo immaginare questa bottega, immersa nel tessuto urbano, come un punto di riferimento per i passanti, momento di sosta e di relazione sociale. La possiamo immaginare persino nella dimensione rappresentata da La bottega del falegname di Jean Bouchirdon, luogo in cui poteva raccogliersi la famiglia, spazio in cui i momenti di vita sociale non venivano mortificati dall’obbligo del lavoro.

      I connotati di fondo della bottega bassomedievale rimasero sostanzialmente stabili mentre, proprio tra il Trecento e il Cinquecento, gli oggetti che uscivano da quei fondaci subirono significative trasformazioni nelle tipologie e nella qualità; ciò fu il frutto della evoluzione del potere di acquisto e quindi dei modelli di consumo.

      All’inizio del periodo considerato, la domanda interna era essenziale, tipica di una realtà in cui la ricchezza era fortemente polarizzata; le attività produttive, seppure differenziate, erano lo specchio di quella situazione. L’immagine internazionale della manifattura fiorentina era essenzialmente rappresentata dai tessuti di lana, dagli eccellenti panni fatti di lane costose, tinti e rifiniti in modo magistrale. Mentre l’Arte di Calimala cedeva il passo all’Arte della Lana, quei panni pregiati che circolavano nel continente europeo e nel Mediterraneo concorsero in modo fondamentale alla crescita della ricchezza anche sostenendo l’ampliamento dei traffici commerciali delle grandi compagnie mercantili bancarie.

      Il mutamento si venne realizzando con una certa gradualità che subì una forte accelerazione nei primi anni del Quattrocento. Crebbero le tipologie dei prodotti realizzati in città e, con la molteplicità produttiva, crebbe un complesso sistema di relazioni tra le botteghe, tra loro e le grandi aziende commerciali.

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