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almeno nel vestibolo e nel limbo. O sempre? per tutto l'inferno? Pensiamo alla grande divisione: tenebra, ombra della carne, veleno.

      Il lume che non è lume, anzi è tenebra, è per certo il fuoco che non impedisce che il luogo ove raggia, non sia di tenebre; è la sapienza e scienza, qual fu di Aristotile e di Plato e di molti altri, che non adorarono Dio debitamente; sapienza e scienza che non venivano dal sereno, e non erano perciò luce, ma tenebra. E l'ombra della carne e l'oscurarsi di quel lume per via della concupiscenza. E il veleno è il corrompersi di quel lume, in modo che volga al male chi lo ha, invece di dirigerlo al bene: ed è la malizia.

      Ora noi vediamo che Dante con aperte parole dice di morire anche avanti la concupiscenza e anche avanti la malizia; di morire di quella morte che è un rivivere, e che quindi non sapremmo dire se sia vita o morte. Non sapremmo dir noi, nè sa dir esso, il poeta. Chè avanti il simbolo più comprensivo della malizia, avanti a Dite che è il re della città roggia, la quale è il regno della malizia,[215] Dante dice:[216]

      Io non morii e non rimasi vivo:

       pensa oramai per te, s'hai fior d'ingegno,

       qual io divenni, d'uno e d'altro privo.

      Resta la concupiscenza. Ebbene nel cerchio di essa, il quale punisce la forma più lieve ma più, diremo, caratteristica di essa; nel cerchio della lussuria, Dante muore.[217] Egli dice:

      di pietade

       io venni meno sì com'io morisse

       e caddi, come corpo morto cade.

      E si noti che con un processo tanto solito in Dante quanto inavvertito dagli interpreti, il poeta compie a mano a mano il suo pensiero e a grande distanza, sì che la parola ultima di quello che, se noi non attendiamo, resterebbe un enigma forte, è pronunziata molto tempo dopo la prima. Della morte alla tenebra parla come d'uno svenimento. Della morte alla concupiscenza dice, sì, che era come una morte. La prima volta cadde come uomo cui sonno piglia; la seconda, cade come corpo morto. Morte dunque o non morte?

      Ed egli solve l'enigma solo parlando della terza volta, di quando morì la morte che è morte al veleno o alla malizia e dice che quella non era morte e non era vita; cioè che era morte e vita nel tempo stesso: morte al peccato e vita a Dio. Ma, per essere più precisi, forse sola quella dell'alto passo, fu morte; morte generica al peccato generico. Le altre sono “sepultura„. Invero, dopo quella morte, come Gesù morì e discese agl'inferi, così Dante agl'inferi discende. E gl'inferi sono, come egli dice, la tomba; e v'è in essa un vermo reo, più vermi, e aura morta e sucidume e notte.[218] Ora dice S. Ambrogio, riportato da quello che egli convertì:[219] “Noi vediamo come è la morte mistica: ora consideriamo come ha da essere la sepultura„. Chè non basta che muoiano i vizi, se non marcisce la lussuria del corpo e non si dissolve la compagine di tutti i vincoli carnali. C'è, dopo la morte al peccato e la natività a Dio, ancor da fare: dobbiamo prima di tutto dissolvere, distruggere la concupiscenza.[220] E invero vediamo che Dante cade come corpo morto nel cerchio della lussuria, a breve distanza della prima morte mistica.

      E quel cadere simboleggia ciò che S. Ambrogio dice, seppellire il peccato, dopo averlo mortificato.

      Ma questo mortificare è un vivificare. Bene S. Agostino comenta[221] le parole di Anna profetessa. “Il Signore mortifica e vivifica, conduce giù agl'inferi e riconduce su„; le comenta coi profondi concetti di S. Paolo. Mortifica, come mortificò il figlio; vivifica, come vivificò il figlio. Perciò lo scendere agl'inferi Dante narra, come un tornare alla vita per via della morte; morte alla tenebra, alla concupiscenza, alla malizia. Non ascende, come dice lo Apostolo delle genti, su tutti i cieli chi non discende negli ultimi abissi;[222] cioè Gesù ascende perchè discese. E come lui, ogni uomo che farà quel ch'esso fece. E come lui, Dante; che ora discende per ascendere; e muore per vivere; e visita l'inferno per vedere il paradiso.

      Il velame comincia a sollevarsi.

       Indice

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      Ritorno a Dante che dopo il passo della selva riposa un poco il corpo, mentre l'animo fugge ancora e più fugge che caccia[223] (fugge dalla selva e caccia verso il colle), ma tuttavia e caccia. La selva è come il vestibolo e quasi il limbo. È il peccato originale, sia in chi non è deterso, sia in chi è come non deterso.

      Chè il battesimo infonde il lume o la prudenza affinchè l'animo veda ciò che è da fuggire e ciò che è da cacciare; ma talora la infonde invano, chè l'animo, per così dire, tien chiusi gli occhi e non guarda. Passata che Dante ha la selva, il suo animo fugge e caccia: vede. Ha riacquistata la prudenza. L'errante ha mortificato la morte dalla quale egli era tenuto nella selva. Egli si trova nelle condizioni stesse di quando poi avrà passato l'Acheronte. Passato l'Acheronte e traversando il limbo: chè il limbo lo visita essendo morto di quella morte, che là tiene sospirosi i parvoli innocenti e gli spiriti magni. Lo visita morto di quella morte; ma il limbo è pur una selva, che egli passa:[224]

      passavam la selva tuttavia,

       la selva, dico, di spiriti spessi.

      Oh! per quelli spiriti era selva, per lui non più. Ed era sonno. Nel sonno non è libero arbitrio.[225] Ma il volere egli lo aveva riavuto libero da quell'iniziale e totale impedimento, da cui era rimasto inceppato nei non battezzati. La tenebra egli l'aveva scossa. Per il che misteriosamente vedrà anche dove è buio di inferno.

      Egli è uscito dalla selva. E che vi ha scorto? Dice:[226]

      per trattar del ben ch'i' vi trovai,

       dirò dell'altre cose, ch'io v'ho scorte.

      Dove parla di queste altre cose? Quali sono queste altre cose? Osservo che nella ripetizione, per così dire, della selva e della viltà e del passo e della tenebra e del lume, quale è poi nell'inferno, dove il passo dell'Acheronte è il passo della selva, assomigliata a un pelago e a una fiumana; in tale ripetizione, Dante continua a passar la selva anche dopo aver passato l'Acheronte. Dunque ciò che racconterà dopo il passo, è ancora di quelle “altre cose„ che ha scorte nella selva. Invero, per un esempio, dopo il passo della selva, egli posa un poco il corpo lasso. Dopo il passo dell'Acheronte egli muove intorno “l'occhio riposato„. O sia l'occhio o sia il corpo riposato, questo riposo, dell'occhio o del corpo, risponde a quello del corpo lasso. Risponde perfettamente, anche se si deve intendere, come intendo io, dell'occhio; chè nella selva, allegoricamente parlando, egli soffrì per un falso vedere, per un veder ciò che non era e non vedere ciò che era, per il difetto del lume che vien dal sereno e che, se di là non viene, è tenebra. Naturale è quindi ch'egli assommi nella stanchezza dell'occhio la sua morale stanchezza di tale cui mancasse la prudenza che mostra le sue vie al cuore. Dunque fu riposato dopo il passo della selva e dopo il passo dell'Acheronte. E dopo quest'ultimo, era ancora nella selva cioè nel limbo; e dunque ancor ciò che racconta dopo il passo della selva, è di quelle cose che vide nella selva.

      Che cosa vide? Egli riprese[227]

      via per la piaggia diserta

       sì che il piè fermo sempre era il più basso.

      Ed ecco una lonza: Essa è leggera e veloce, coperta di pelle macchiata o gaietta. Faceva come il cane, che scacciato corre via e poi si rivolta con insistente abbaiare al passeggero:

      e non mi si partìa dinanzi al volto,

       anzi impediva tanto il mio cammino...

      Questo cammino era quello dell'animo, che fuggiva dal passo della selva e cacciava verso il colle; dell'animo che già discerneva, dell'animo in cui era un poco quetata la viltà o paura. Ora se la paura è lo stato dell'animo privo della prudenza, e perciò delle altre tre virtù cardinali, ossia d'ogni virtù, è naturale che cessi al finir della notte, s'ella era connessa con quella notte;

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