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di modi aspri. Una mattina la sua governante le annunciò ch'egli era partito: partito per un viaggio lontano, reclamato da urgenti interessi, che compromettevano ogni loro avere. Non l'aveva salutata neppure: il tempo gliene era mancato; ma stesse di buon animo: egli non l'avrebbe dimenticata un solo momento.

      Questa partenza non turbò gran fatto l'animo di Loreta. Era abituata alle stranezze di suo padre. Provò invece un turbamento infinito, un'oppressione potente, quando un giorno, per puro caso, udì dalle labbra di un servo la ragione che dalla gente si attribuiva alla precipitosa partenza di lui. Era un'accusa infamante, che le chiamò il rossore al viso e l'amarezza nel cuore. Lottò per non crederci, per rompere il fatale incubo di quel sospetto, per raccogliere le prove che contro suo padre si fosse ordita dall'altrui malignità non altro che una bassa calunnia.

      Ma non potè. Gli indizî tutti congiuravano a distruggere ogni pietoso sentimento che nel suo cuore restava.... Suo padre non solo l'aveva abbandonata, ma a poco a poco obbliò perfino di mandarle i necessarî soccorsi. A diciott'anni Loreta si trovò sola, senza consigli, senza conforti, sul limitare della vita, esposta a tutti i pericoli ed a tutte le seduzioni.

      Che fare in quel frangente? Ancora una volta il suo ingenito senso di onestà e di coraggio le fu scorta. Suo padre se non altro le aveva fatto dare un'educazione sufficiente. E questa doveva bastarle a guadagnarsi un pane onorato. Bisognava rassegnarsi a servire rinunciando a tutte le idee di indipendenza e di benessere, che un tempo le avevano arriso. E seppe rassegnarvisi animosamente.

      --È stata una prova difficile!--soggiungeva Loreta.--E credetti di poter in essa trovare la felicità!... Per un tempo, sì, mi parve anche di esservi riuscita. Ma una delusione ben più grande mi aspettava. Quel che ho sofferto.... Guai per me se volessi risuscitare i ricordi!...

      Il discorso così fu tronco più volte. Le confidenze che Loreta aveva fatto alla signora Chiara s'erano sempre arrestate a quel punto.

      La prima volta in cui l'ottima signora potè apprendere dal labbro della giovane un più particolare accenno ai fatti che avevano da ultimo amareggiata la sua vita, fu improvvisamente in una brutta giornata, nella quale i Sant'Angelo ebbero a soffrire per causa sua una grande emozione.

      Da più giorni la Lambertenghi mostravasi singolarmente abbattuta e preoccupata. Alla mattina, come di solito, scendeva per tempissimo dalla sua stanza, mettendosi tosto alle usate faccende. Ma a nessuno di casa sfuggivano le tracce dell'insonnia o del pianto, ch'ella aveva costantemente negli occhi pensosi. Forzavasi di mostrarsi vivace, metteva nella esecuzione delle faccende domestiche una foga speciale; alla signora che le moveva qualche domanda se si sentisse male ed alla Vige che si arrabbattava per toglierle di mano qualche lavoro, assicurava che non aveva nulla. Però a sera, verso le nove, dopo aver tenuto per un poco compagnia alla signora Chiara, ella chiedeva con manifesto dispiacere di potersi ritirare. Diceva di sentir bisogno di riposo, di avere la testa confusa e indolenzita. E se ne andava scusandosi, rammaricandosi di dover lasciare la signora, ringraziando per le premure con cui tutti si interessavano a lei.

      --Non è nulla, ma nulla affatto. Un po' di sonno.... Ecco la miglior medicina.

      La Vige che stava ad udirla con grande attenzione, fissandole in viso gli occhi buoni, profondamente, tentennava allora il capo, e appena ell'era uscita, volgendosi alla signora Chiara:

      --Medicina, sì!--mormorava sottovoce.--La sua medicina sono le lagrime. Il sonno, il riposo.... A chi lo racconta? Povera signorina, mi fa tanto male!...

      --E a me!--soggiungeva la signora Chiara.--Ma bisogna mostrare di non accorgersi di nulla. Il tempo.... Vedrai, le passerà!

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