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nell’abbandono, e muoiono anzichè darsene pace. Per contro erano cresciuti gli alberi, gran solitarii, anche quando si ritrovino in molti, che degli uomini non si dànno un pensiero al mondo, e vorrebbero anzi che gli uomini non si dèssero tanto pensiero di loro, per tagliarli, segarli, riquadrarli, piallarli a molti usi volgari, o farne legna da ardere. E insieme con gli alberi erano venute su liberamente le rose, belle salvaticacce che bastano molto a sè stesse. Diradare quegli alberi, sfrondandoli un pochino qua e là, ravviar quelle rose, nettandole d’ogni seccume e potandole, era stata la prima cura dei nuovi arrivati; quanto ai fiori più delicati, poco c’era voluto a trarne da tutti i dintorni, a farne allignare nelle vecchie aiuole risarchiate, e lungo i viali rifatti.

      Per quei viali passeggiava la coppia felice; Fior d’oro col braccio sinistro girato intorno alla vita di Damiano; Damiano col braccio destro girato intorno al collo di Fior d’oro. Erano atti, per avventura, di soverchia libertà; ma non veduti per allora se non dagli uccellini saltellanti e chioccolanti sugli alberi. Ed essi, finalmente, come quegli alberi per tanti anni avevano fatto, non si davano pensiero di nessuno. Se n’andavano a passi lenti, così mollemente abbracciati, chiacchierando a mezza voce, bisbigliando quasi, com’è l’uso degli innamorati a buono, che non han nulla da dirsi di serio, nè sopra tutto di nuovo, ma che nelle cose più naturali e più comuni debbono metter sempre un po’ di mistero.

      Un rumor di passi sulla ghiaia del viale fece voltar la testa a Damiano. Una sbirciata bastò al felice mortale, perchè egli spiccasse il braccio dalla dolce postura che s’era scelta con tanto buon gusto, e prendendo per mano la contessa Juana muovesse incontro al nuovo venuto.

      —Quello, o ch’io sogno, è il vostro genero;—gridò egli con ostentazione di allegrezza, più fatta per consolar l’ospite, che per esprimere il vero sentimento dell’animo.—Capite, Fior d’oro?—incalzò, rivolto alla contessa, mentre stendeva pure la mano al suo antico aiutante.—Vostro genero! vostro genero!

      —Già,—disse a sua volta il Passano inchinandosi,—il genero d’una suocera a trent’anni. Si può ben dire l’età d’una donna, in un caso come il mio, non è vero?—

      Così dicendo, prendeva la mano che la contessa gli aveva stesa in atto benevolo, e si chinava ancora accennandovi il bacio di cerimonia che la galanteria spagnuola incominciava a far prosperare sulle terre italiane. Mai suocera al mondo meritò tanto un simile omaggio, od altro assai meno cerimonioso di quello.

      —Come sta madonna Bianchina?—gli domandava frattanto il Fiesco.

      —Bene, benissimo; e saluta, s’intende, e abbraccia la sua bella mamma.

      —Perchè non condurla con voi?—

      Era la stessa domanda di don Garcìa; ed ebbe l’istessa risposta. Onde da parte del Fiesco l’istesso inarcamento di ciglia, ma con una giunta di parole che non aveva potuta fare quell’altro.

      —Visita di poche ore! Mi spaventate, Giovanni mio. Faccende, dunque? e gravi?

      —Oh, questo poi no. Son venuto col libro dei conti. Volevo sapere che cosa si dovrà fare della vostra parte di profitti sulla nave Paradiso. Siete il partenevole più grosso, e ci avete un guadagno, quest’anno, di seimila ducati larghi.—

      Bartolomeo Fiesco fece una bella riverenza. Seimila ducati larghi erano una bella somma. Il ducato largo, o genovino d’oro come s’era chiamato nei tempi anteriori, con un peso di grammi 3,567, eguale del tutto al suo fino, e con un valore di due lire, due soldi, e due denari, valeva nei primi anni del Cinquecento, in moneta corrente, tre lire e due soldi. La lira genovese ne valeva allora più di tre delle nostre; sicchè, fate il conto, e troverete che il ducato largo ne valeva più di dodici delle odierne italiane. Moltiplicate per seimila, e vedrete che bel guadagno avesse fatto messer Bartolomeo delle Indie col suo Paradiso. Ancora qualche annetto di fortuna, e c’era da farsi foderar d’oro una bella nicchia in purgatorio.

      Fece dunque una bella riverenza, come il caso meritava. Ma non gli parve altrimenti che fosse mestieri un viaggio, per sapere dove andasse collocato tant’oro.

      —Per questo siete venuto!—diss’egli.—E non la ricordavate, la mia massima? San Giorgio, amico Passano; le “colonne„ di san Giorgio sono le mie colonne d’Ercole. È quello il luogo, il posto, il rifugio sicuro pei ducati larghi. Ma forse avete ancora da dirmi della Santa Giovanna?

      —Quella è arrivata a Bari per le lane; non si aspetta prima di giugno. Così almeno mi ha detto ier l’altro il Sauli, che aveva ricevuto lettere. Ho qui invece il fogliazzo delle spese. Se gli date un’occhiata, essendo ancora giorno....

      —Volete dire che i numeri si leggono male a lume di lucerna? E sia;—soggiunse messer Bartolomeo,—contentiamo questo terribil Passano. Sedete?—diss’egli, facendo un cenno d’invito a Fior d’oro.

      —Fate, fate;—rispose la contessa;—io vi lascio. Quando siete coi numeri, bisogna lasciarvi stare.

      —Capirete, Juana, e perdonerete senz’altro. Son genovese; e il genovese, per vostra norma....

      —Oh, non dicevo per questo;—interruppe la bella.—Che genovese, del resto? Non vi vantate, amico mio. Volevo dire piuttosto che vi c’imbrogliate parecchio.

      —Ah sì, birichina? Ma ciò avviene perchè guardo voi; e allora, povero a me, smarrisco perfino il ricordo della tavola pitagorica.

      —Vedete dunque....—diss’ella con aria di trionfo.—Ragione di più per lasciarvi con messer Giovanni mio genero. Farò allestir la cena un po’ prima, perchè egli avrà appetito, m’immagino.

      —Abbastanza, madonna;—rispose il Passano.—Ho tanto rinsaccato, su quel maledetto cavallo!—

      La contessa si era ritirata; ma dal vano di un uscio, voltandosi, aveva gittato un bacio col sommo delle dita a Damiano. E Damiano, che lo colse al volo, non volle lasciarlo senza ricevuta.

      —Povera tavola pitagorica!—gridò egli ridendo.—La vedo brutta.

      —Che c’è?—disse il Passano, levando la fronte dai suoi scartafacci.

      —Niente, niente; parlavo a mia moglie. Mia moglie!—ripetè il capitano Fiesco.—Ecco due strane parole. Sapete, Giovanni mio, che non so avvezzarmi a questo nome? e che mi par sempre un sogno?

      —Restate nel sogno;—rispose quell’altro.

      —Certamente, certamente, poichè il sogno è così dolce! Ma ora che siamo soli, ragazzo mio, vuoi tu dirmi che cosa significhi la tua visita? Tu non sei mica venuto per sapere dove andassero collocati i miei ducati larghi.... e neanche per rompermi la testa col fogliazzo. Tu hai una commissione per me, ed una commissione urgente.

      —Avete ragione;—rispose il Passano.—Ecco qua, infatti.—

      Così dicendo, traeva di sotto al giubboncello una lettera, e la porgeva al capitano Fiesco.

      —Ah, volevo ben dire!—esclamò questi.—Gian Aloise?...

      —Lui, in persona. Mi aveva mandato a chiamare in gran fretta, ier sera; ed ho risicato, figuratevi, di fiaccarmi tre volte il collo in quei cento scalini di Violata, non avendo altro lume nel buio se non questi due occhi. Giunto alla sua presenza, eccovi il dialogo che corse tra noi: Verrà di questi giorni a Genova il tuo principale?—No, eccelso signore; è più facile che Genova vada a Chiavari, di quello che venga a Genova lui.—Ebbene, andrà Genova a Chiavari, nella persona tua; passerai da me domattina per tempo; ti darò una lettera, che dovrai consegnargli senza fallo in giornata; a lui, mi capisci? e parlandogli a quattrocchi, che nessuno ne abbia fumo. Ritornai da messere Gian Aloise questa mane per tempo; tenevo il cavallo sellato ad aspettarmi fuori della porta di Santo Stefano. Avuta la lettera, son ridisceso dalla Montagnola; ho infilata la via dei Lanieri; son montato in arcione, e via di galoppo, che n’ho ancora le reni fiaccate.

      —S’intende che ti sarai ristorato a tutte le frasche.

      —Messere!...

      —Eh via, non saresti genovese.

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