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tirannide lorenese, allorchè in una delle nicchie vuote degli Uffizi il Batelli stampatore collocò la statua dell'eroe morto per la libertà della patria, ella lasciò fare e non disse verbo. Cause vere per le quali il Burlamacchi ebbe la statua nel 1859 furono queste due, che ai patrizi servili parve bello sfruttare in loro vantaggio la rinomanza dello infelice repubblicano, e che a quei giorni, avendo essi l'erario nelle mani, poterono farlo co' quattrini del pubblico.

      A me per tanto corre obbligo di dettare come posso la vita di questo grande infelice, perchè l'anima sua riceva il giusto premio di lode ed esulti. Se volere fosse potere, da ora in poi il Burlamacchi non invidierebbe, come Alessandro fece, Omero ad Achille, o forse (dirò senza rispetto quello che sento) io non ho mai desiderato ed invocato valore di lettere come adesso, conciossiachè si tratti vendicare l'eroe lucchese non solo dalle ingiurie della fortuna, ma da quelle smisuratamente peggiori della turpe genìa di barattieri patrizi e plebei camuffati da uomini liberi: per me che mi trovo capace di sopportare ogni più fiero guaio, la lode da costoro non sopporterei, e credo fermamente che, se taluno di essi si avvisasse toccare il mio sepolcro quando sarò morto, io resusciterò di punto in bianco per agguantare la lapide e scaraventargliela nella testa.

      I flagelli della umanità non si medicano, si distruggono; e finchè le zecche e le marmeggie del 1859 non sieno disperse, non pensate nè manco alla libertà confermata, alla rettitudine restituita, alla virtù rimessa in fiore: giudicate l'albero dal frutto che ei dà. Come Catone finiva ogni suo discorso col motto Chartago delenda est, così ogni uomo dabbene dovrebbe conchiudere le sue orazioni esclamando: «Dei patrizi e dei plebei i quali si chiamarono moderati e furono schiavi e ladri vuolsi spento il seme.»

       Indice

      Dicono Francesco Burlamacchi nato di piccola gente, e non è vero. — Il Dalli canonico ce lo dà per fallito, e perchè; così pure lo Ammirato e lo Adriani per piaggeria al principe; non diversamente il Botta, ma per pecoraggine: giudizio sopra questo scrittore, severo ma meritato. — Antichità della famiglia Burlamacca: donde il suo soprannome per opinione dei cronisti: quale fosse prima. — Questa famiglia, come degli ottimati, e guelfa è cacciata dal popolo; torna in patria, dove si distingue per uomini insigni e tiene sempre luogo onorato fra i maggiorenti. — Sue case e torri, patronati, sepolcri ed armi gentilizie; sostanza dei Burlamacchi, per quali cause scemata. — Francesco mercadante di seta; per ciò lo spregiano l'Ammirato e lo Adriani. — Fiorentini mercadanti tutti, così i Capponi, e così i Medici, i quali esercitavano la mercatura anco dopo fattisi principi. — Giovanni Bicci presta danaro sul pegno della tiara papale a papa Martino. — Dei genitori di Francesco, dei suoi fratelli e delle loro fortune. — Quali i suoi studi; allora fra semplici artefici s'incontravano con frequenza in Toscana dicitori in prosa ed in rima; stato presente di letteratura deplorabile in Toscana, in Firenze deplorabilissimo. — Fra Pacifico, zio di Francesco Burlamacchi e veneratore di fra Girolamo Savonarola, ne detta la vita; lo difende altresì nel dialogo chiamato Didimo e Sofia; insegna il modo di mettere in cervello l'enormezze romane, educa la gioventù e muore in odore di santo; educatore della gioventù lucchese e di Francesco. — Sue qualità fisiche e morali: chi fosse la sua moglie. — In che età entrasse Francesco nella magistratura; ed indi in poi tenne sempre il maestrato: non cerca mai uffizio, uno sì, e perchè. — Buoni ordinamenti della repubblica lucchese per difendersi dalle insidie dei potentati vicini. — Divisione della città per l'amministrazione e per la difesa, terzieri, gonfaloni e pennoni. — I Burlamacchi del terziere della Sirena adoprano questa immagine per cimiero. — Come ordinate le milizie; quante le armi e quanti gli armati così in città come in campagna; segnali diurni e notturni per convocare le milizie. — Francesco col favore di Giambattista Borrella viene eletto commissario delle armi. Quali i compagni di Francesco in cotesto maestrato, e quali i luoghi alla custodia loro commessi; larghezze del Burlamacchi per attirarsi la benevolenza dei soldati: a quanto sommassero le battaglie di campagna. — Si parla delle imprese felici e delle sventurate, e per quali cause le seconde possano acquistare lode pari alle prime. — Di Focione e del suo giudizio intorno alla guerra lamiaca.

      Se Francesco Burlamacchi fosse nato di piccola gente presso la più parte degli uomini, ai tempi che corrono, io giudico gli tornerebbe a merito maggiore; tuttavia non vuolsi nè anco in questa parte darla vinta agli scrittori, i quali s'immaginano vituperarlo affermandolo artefice e plebeo. Si comprende ottimamente che un Dalli in certa sua cronaca manoscritta[2] ce lo dia per fallito e mosso a pescare nel torbido per tôrsi dalla fame; costui canonico era ed aveva un dente contro Francesco, che i preti e le pretesche cose amava quanto il fumo agli occhi: e, per preti e per femmine, morte non placa l'odio immortale. Quanto a Scipione Ammirato, il quale dichiara il Burlamacco ignobile, ma nel numero degli artefici che governavano Lucca[3], ed a Giovambattista Adriani, che a sua posta lo ciurma artefice, come per ordinario i Lucchesi sono[4], si capisce la ragia: entrambi aggreppiati alla medicea mangiatoia, entrambi nudriti di principesca profenda, dettavano quello che secondo il giudizio loro doveva piacere ai padroni; ma non si capisce come Carlo Botta dopo tre secoli ribadisca il chiodo quasi a sollazzo replicando ora che artefice era di suo stato, ma secondo la usanza della repubblica capace di sedere ai governi, ora che sebbene nato in basso loco, pure aveva sortito da natura ingegno idoneo alle imprese eccellenti, in ultimo che, comunque in opere manuali di continuo si occupasse, pure ritraesse maraviglioso diletto dalle antiche storie.[5] Forse il Botta, a cui le rivoluzioni mettevano i brividi addosso, non volle divulgare lo scandolo, che in cosiffatte enormezze si contaminassero i patrizi, i quali, a quanto pare, formavano argomento di ogni sua sollecitudine, sebbene talora anco questi pigli a morsi. Certo spositore di fatti assai commendevole hassi a stimare il Botta, della favella nostro cultore felice, ma brontolone senza concetto; onde alla fine la lettura de' suoi scritti genera fastidio, imperciocchè le storie si dettino per testimonio dei tempi e per l'ammaestramento degli uomini, non già per isfogare le proprie smanie, siccome costumano quelli che sono côlti del mal di colica.

      Or ecco ricercando quello che apparisce essere vero. Antichissima e nobilissima la famiglia di Francesco Burlamacchi; a suo tempo parlerò della discendenza di lui, la quale fu non meno dell'ascendenza preclara. Comechè di questa famiglia non appaia memoria scritta prima del 1224, e non occorra documento spettante proprio a lei innanzi del 1262 (del quale anno ci avanza una pergamena di Trasmondino di Baldirotto Burlamacchi, dove fra le altre disposizioni testamentarie ordina lo seppellissero nella chiesa di San Romano), tuttavia non è dubbio che da più remota antichità ella derivasse; imperciocchè si ricordi come del 1218 ardesse l'archivio di San Salvatore, in cui gli atti dei notari si custodivano, per la quale cosa chi non fu cauto di provvederne copia per gli archivi della famiglia ne patì danni nel credito e nella roba. Pertanto lo stipite primo della casa Burlamacchi ebbe nome Buglione; il soprannome poi non fu in antico Burlamacchi, sibbene Ansenesi; e donde e perchè cotesto mutamento avvenisse ce lo conta un antico cronista.[6] Nel tempo che i Pisani tiranneggiavano Lucca (dacchè le repubbliche dei tempi medii fossero più e peggio dei tiranni oppressore ed oppresse) uno di questi Ansenesi si finse pazzo, sicchè per tale comunemente stimandolo, potè sicuro senza sospetto aggirarsi per la città portando a cintola un coltellaccio di legno ed in mano una zampogna con la quale parlava negli orecchi di quanti incontrava, e se non se ne fidava diceva follie, se all'opposto se ne fidava, gli eccitava a buttarsi giù dal collo il giogo del servaggio, ammonendoli a tenere certe pratiche che poste in opera con arguzia avrebbero loro data vinta la impresa, come di fatto seguì, ed egli allora, mutato il coltellaccio di legno in una buona spada di acciaio, alla testa dei sollevati recatosi in palagio dove stanziava il console di Pisa, senza tante storie lo trucidò. Da indi in poi nol conobbero con altro nome, eccetto quello di Burlamatto, il quale alquanto alterato conservarono i suoi posteri in memoria del caso, dismesso in tutto l'antico cognome degli Ansenesi.

      Quando il popolo prevalso al governo dei signori nel 1308 cacciò prima di palazzo, poi di città le casate dei nobili, i Potenti e i Casatici, chè a questo modo si designavano i signori di Castelli, fu mandata in esiglio anco la famiglia dei Burlamacchi principalissima guelfa; sicchè tu vedi quanto si apponga al vero Carlo Botta nelle sue storie quando pretende di riffa Francesco plebeo.

      Tornata in patria la famiglia Burlamacchi, occorre sempre ammessa

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