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       Francesco Domenico Guerrazzi

      Veronica Cybo

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066088064

       A GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI.

       PREFAZIONE.

       AL CAVALIERE NICCOLÒ PUCCINI.

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       VI.

       VII.

       VIII.

       IX.

       X.

       XI.

       APPENDICE.

       Indice

       Rovistando tra i miei fogli, i quali troppo più spesso che non faceva di bisogno patirono disoneste invasioni, io ho trovato la espressione dei sentimenti che mi animavano verso di te, inclito amico, allora quando, volgono adesso venti e più anni, io adolescente imprimeva la prima orma nello arduo arringo delle lettere umane. Opera quasi di fato mi parve la conservazione di cotesto scritto; onde io voglio senza punto mutarlo od emendarlo revocartelo alla memoria:

      Tu che forti opre in secol guasto imprendi,

      E i vivi marmi del nostro Agnol guati

      E senti, — e lo eternale dei dannati

      Pianto di rabbia e di dolore intendi;[1]

      Tu che possa natura all’uomo apprendi

      Sotto l’italo cielo incontro ai fati,

      Quanto sia premio un riso amico ai vati,

      Gentilissimo Spirito, comprendi.

      Pur me anelante delle amate fronde

      Non lusingare, e di’, se il merto: «Falle,

      Volgi, o figlio, la prua da queste sponde.» —

      Duca mio dolce, pel dirotto calle

      Mi odi, e cortese al domandar risponde:

      «Debbo salire o rimanermi a valle?»

       Tu dunque conosci quanto sia antico il mio culto per te; e coll’andare del tempo egli crebbe meritamente, però che tu sii la migliore coscienza di questa nostra patria italiana.

       Tu fra rovine d’imperii, e di stati amplissimi, e diversissimi, fra impeti di passioni scomposte, e cieche ire, e più cieche ambizioni, e turpi libidini di potere, e proteiformi ipocrisie, e codardi disertamenti, non curato schiamazzo o paura, hai portato alto la tua fede come un vessillo trionfale nel giorno della battaglia; sicchè chiunque ti tenne dietro senza smarrire la via giunse a fine generoso.

       Vergognando pertanto che per mesi taccia l’alto tuo nome in fronte dei miei scritti, riparo alla colpa diuturna intitolandoti queste povere cose. Avrei desiderato poterti offrire opera più degna di te; ma a non indugiare mi persuadono gli anni declinanti, e la paura che la pratica lunga d’ignobile mestiere non insalvatichisca affatto il mio ingegno. Abbiti in voto i brani di un’anima redenti dalle bassezze del Foro, come in Arcadia i Pastori solevano consacrare a Pale le reliquie dello agnello salvale dalle fauci del lupo!

       Nel salutarti la migliore coscienza di questa nostra patria italiana, io per necessità ho inteso darti ancora la lode del maggiore senno italiano; conciossiachè io creda fermamente essere l’alta intelligenza uno spirito fecondato dalla fiamma del cuore; e quando il cuore diventa un tempio della Divinità, di rado avviene che le Muse sue compagne dal giorno della creazione non iscendano ad albergarvi con essa.

       Tu poi accogli con lieta fronte queste parole, perchè liberamente favellate a libero uomo: e la lode, quantunque profferita da labbra terrestri, ove sincera, affermano i poeti che giunge gradita anche alle orecchie degl’Immortali.

      Tuo amico

       F.-D. GUERRAZZI

      Giugno 1847.

       Indice

      Non fu la carità del natio loco quella che m’indusse a raccogliere queste foglie morte innestandovene alcune fresche, per allontanarne per quanto fosse possibile l’aria di funerale. Meglio sarebbe stato consacrarle a Vulcano!... Però considerando come la Italia sia tanto dalle sue antiche glorie scaduta, che spenti ormai o prossimi a spegnersi i suoi famosi scrittori, abbia bisogno annoverare uomini, quale io mi sono, tra i suoi fregi letterari, e così ostentare vetri per gemme, e orpello per oro, non volli che altri mi togliesse subietto di speculazione mio malgrado. Non credo avere fatto meglio che altri: ma finalmente il male che ci viene da noi stessi ci offende meno, imperciocchè siamo convinti di non averlo fatto a posta e con animo intento alla ingiuria. Ciò premesso, discorrerò brevemente delle diverse operette che compongono questo volume.

      Alla Veronica Cybo, Duchessa di San Giuliano, quando prima venne alla luce in Toscana, usarono onesti modi e liete accoglienze;[2] poco dopo essendosi provata a presentarsi sotto altra veste,[3] le fecero il viso dell’uomo di arme, ond’ella, che è per sua natura sdegnosa e fiera molto, esulò dalla patria; e datasi a girare pel mondo, trovò ospitale accoglienza.... figuratevi dove? — A Vienna! Ma però la costrinsero a pagare caro prezzo la ricevuta ospitalità, perchè ebbe a porre giù i suoi panni italiani, e vestirsi alla tedesca.[4] Così abbigliata osò affacciarsi di nuovo alla Italia: le fecero festa nella capitale della Lombardia, e presero a tradurla in italiano. Era già stampata questa traduzione e pronta a comparire in pubblico, quando un Lombardo che si occupa talora delle cose di questa divisa dal mondo e ultima Toscana, avvertì il libraio che la Veronica Cybo era nata e scritta in Italia. Se fosse nata, non dirò francese o inglese, ma chinese o tartara, gl’Italiani lo avrebbero per avventura saputo; ma noi chiusi dai medesimi monti e dai medesimi mari, noi parlanti una stessa favella, siamo così gli uni agli altri famigliari, che Pisa ignora quello si fa a Lucca. I signori Tendler e Schaefer,

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