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loro. — E scrollò le spalle.

      — Ma non potete immaginare — ripigliò subito dopo — che cos'è una prima rappresentazione per me! Non lo nascondo, miei buoni amici, non so far l'uomo forte; mi sento da meno d'un fanciullo. Già da più giorni prima mi trema l'anima. In quei momenti, poi, è uno sconvolgimento di tutto il mio essere, da averne terrore. Ogni volta dico a me stesso: — Questa sarà l'ultima! — E poi ci ricasco. Ma le più violente emozioni del lavoro notturno, dopo mesi di eccitamento e di diavolo in corpo, quando si caccian fuori ad un tempo parole, grida, gemiti e lacrime, e par che il cranio scoppi e le ondate del sangue rompano le vene, non son nulla in confronto dell'inferno che mi rugge nell'anima quando sento nella fronte il soffio maledetto d'una platea.

      Poco dopo venne a parlare del nuovo romanzo che ha sul telaio, e diede la via a un vero torrente d'eloquenza comica e pittoresca, a una di quelle splendide sfuriate da parlatore magistrale e da grande artista, che rimangono impresse quanto le più belle pagine dei più bei libri. Venne a parlare del romanzo a proposito dell'attore La Fontaine dell'Odéon, che deve recitare nel suo Jack, e ch'è un meridionale espansivo, tutto fuoco e fiamme, esuberante di vita a segno, che non riesce a far bene se non le parti contrarie affatto alla sua natura, nelle quali è costretto a frenarsi. Il nuovo romanzo, che si potrebbe intitolare l'Imagination, riguarda appunto i meridionali, les gens du midi, quella gente immaginosa, focosa, tempestosa, tutta a scatti e a folate, temeraria e invadente, che va dalla provincia a Parigi, e conquista la grande città con la sua audacia, con le sue passioni, con la sua eloquenza, con la varietà e la vivacità infaticabile e simpatica delle sue attitudini. Il tipo di costoro è un avvocato, uno di quegli uomini che non son nulla a sangue freddo, ma che possono tutto quando s'accendono, e che non pensano se non quando parlano; specie di cantanti della vita pubblica, che fanno fortuna con la voce e con la passione. Costui, sconosciuto affatto, deve far la sua prima difesa alla Corte d'assise, in una causa che disprezza. Ci va di malavoglia, dà un'occhiata sbadata alle carte, e comincia a parlare svogliatamente. A poco a poco, però, il suono della propria voce lo eccita, la sua natura meridionale si sveglia, mille cognizioni e mille idee nascoste gli vengon su a ondate come per incanto, le sue facoltà intellettuali ingigantiscono rapidissimamente, s'entusiasma di sè, si commuove, i suoi occhi si inumidiscono, la sua voce s'innalza in grida e in accenti irresistibili, la sua eloquenza sfolgora e soggioga l'uditorio, ed egli termina tra un uragano d'applausi, ed esce stupefatto, sbalordito di sè medesimo, in mezzo a una folla entusiasmata che lo acclama e lo eleva al cielo, promosso grand'uomo, in tre ore. Così egli comincia la sua carriera. Intorno a costui s'aggruppano altri personaggi dello stesso paese e della stessa tempra. Ognuno può immaginare dentro a che aria ardente ed elettrica il romanzo si debba svolgere, che diavolerie d'avventure ci si debba trovare, che ira di Dio di passioni, che tempeste di dialoghi, che lava infocata di lingua.

      Condotto a parlare della natura meridionale, eccitato come uno dei suoi personaggi, il Daudet ci fece passare dinanzi una lanterna magica di originali amenissimi: gente che vive in uno stato di congestione cerebrale perpetua, briachi senza bere, a cui si vedono salire al viso, di tratto in tratto, onde di sangue infiammato, che gl'imporporano fino alla radice dei capelli; — che parlano da soli per la strada, a gesti concitati, cogli occhi fissi dinanzi a sè, vedendo passare realmente, come cose salde, gli spettri della propria fantasia; — gente per cui ogni pensiero si fa immagine viva, e ogni immagine ne suscita cento, e ogni più piccolo accidente diventa dramma; — fuochi d'artifizio che bruciano per tutta la vita; mutabili come «quadri dissolventi;» che nello spazio di cinque minuti singhiozzano parlando della madre malata, scroccano cinque lire a un amico, criticano furiosamente l'ultima commedia dell'Odèon, danno in una gran risata per una barzelletta, e balzano in piedi cogli occhi sanguigni e col collo gonfio, tendendo il pugno in atto d'imprecazione contro i nemici della repubblica: — un misto stranissimo di natura femminea e di virilità selvaggia, di spontaneità impetuosa e d'arte sopraffina, matti e furbacchioni ad un tempo, pieni di sentimenti generosi e di superstizioni da femminette, terribili negli amori e negli odii, spensierati e ostinati, piagnoloni e burloni e sballoni, commedianti eterni, creature proteiformi e indecifrabili, adorabili e odiosi secondo il colore del tempo. Quanti ne fece passare, e con che maestria, dal letterato bohémien che parla per cinque ore di seguito, con un affetto sviscerato, della famiglia lontana a cui non ha mai dato che dei crepacuori, e s'esalta a poco a poco fino al punto, che i suoi amici, temendo un colpo d'apoplessia, gli schiacciano improvvisamente sulla nuca un'enorme spugna piena d'acqua, che egli riceve ringraziando con voce di moribondo; fino al basso sfiatato, il quale, all'annunzio della morte di un amico, grida con sincero dolore: — Mort! —; ma sorpreso dalla voce piena e inaspettatamente sonora che gli è uscita dal petto, scorda l'amico, ripete la nota, cangia di tuono, prova una fioritura, e si frega le mani, esclamando gioiosamente: — Ça y est! — Poi rifece mirabilmente il dialogo di due di costoro; i quali incontrandosi per la prima volta, si fanno a vicenda le più sviscerate proteste d'amicizia, e le più calorose profferte di servigi, con le lagrime agli occhi, ciascuno dei due non credendo una maledetta alle parole dell'altro; e si lasciano dicendo l'un dell'altro: — È un briccone ipocrita; — il che non toglie affatto che, incontrandosi daccapo cinque minuti dopo, gettino un grido di gioia e si corrano incontro con le braccia aperte, ringraziando il cielo della buona ventura; e tutto ciò sinceramente, col viso raggiante e con la voce commossa davvero. Ma bisognava vedere come imitava le voci, i gesti, gli sguardi, i fremiti delle labbra mobilissime e delle narici dilatate, e il roteamento degli occhi bovini, piegando a tutti i tuoni la sua voce morbidissima di tenore. Si sarebbe inteso con un grande piacere anche non comprendendo il senso delle sue parole, tanto la sua voce accarezza l'orecchio, come un canto, e il suo gesto spiega il pensiero. Come si vedeva l'artista! Mentre parlava, faceva continuamente con la mano destra l'atto di dare un colpo di cesello, o un tratto di matita, o di premere col pollice il colore sulla tela; e quando in quella foga ardente era costretto a soffermarsi un mezzo secondo per cercare la parola propria, s'impazientava e fremeva che pareva sotto i ferri d'un chirurgo. Allo studio della natura meridionale fu certamente aiutato dalla natura propria; ma meraviglioso nondimeno il tesoro di osservazioni che ha raccolto prima di mettersi a scrivere il suo romanzo. — Hanno un modo di vedere il mondo, e di starci, tutto loro proprio, — disse concludendo: — ma ci sono grandi differenze tra loro. Ci sono i meridionali della parte di Spagna e quelli della parte d'Italia. Questi hanno la stessa potenza d'immaginazione, la stessa effervescenza e le stesse attitudini di quegli altri; ma con più fondo latino. Sanno meglio dominarsi. Hanno il savoir faire italiano. C'è più combinazione nella loro natura. Messi alle prese coi loro fratelli dell'altra parte, gl'insaccano. Leone Gambetta è un di loro. — E anche Alfonso Daudet. Egli stesso lo disse colla sua grazia arguta, riferendo la risposta data da lui a un direttore di teatro, Avignonese, il quale voleva dargli ad intendere non so che cosa. — Caro mio, è inutile che vi sgoliate. Io son dei vostri. Nous sommes compliqués, vous savez. Ci comprendiamo benissimo. Mettiamo le carte in tavola senz'altro. — Egli trova molta analogia tra i meridionali di Francia e i normanni. I normanni sono i meridionali del nord: vedono tutto grosso. — Guardate il Flaubert — disse — il Vacquerie, il D'Aurevilly, — e ne citò venti, dando a ogni nome una pennellata da ritrattista. Io lo guardavo attentamente mentre parlava, e mi faceva meraviglia e paura il vederlo già così nervoso e vibrante alle dieci della mattina, prima ancora d'aver ricevuto la scossa del lavoro artistico; e più mi meravigliavo pensando che non era certo la presenza d'un suo amico intimo e del primo straniero capitato, che lo metteva così in ribollimento; che quello doveva essere il suo stato abituale, il suo modo di vivere, sempre concitato, febbrile, tormentato dal suo pensiero e dal suo sentimento, con le mani irrequiete e la voce commossa. — Che sarà quando lavora — pensavo — o quando parla davanti a venti persone, in quei giorni in cui cinquantamila esemplari d'un suo romanzo spiccano il volo per le quattro plaghe dei venti?

      Nominato il Flaubert, mutò viso, e parlò dei suoi funerali a Rouen, dov'era stato pochi giorni prima, con accento affettuoso e triste, come d'un figliuolo; e guardava fisso la pipetta, come se serbasse in sè qualche cosa di vivo del suo grande e buon amico. All'improvviso, si rasserenò e saltò addosso con tutte le armi del suo arsenale satirico, a un disgraziato scrittore francese, che aveva incontrato ai funerali: un vecchio poeta bizzarro, non meno famoso per il suo ingegno che per i suoi vestimenti teatrali, ornati di nastri e di trine; settuagenario di ferro, gran mangiatore, gran bevitore,

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