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le ridiede il sangue, il colore, la forza. — Fu egli chiamato il Titano della prosa, e la denominazione sta, poi che titanica è invero la prosa sua, così straordinariamente insolita.

       Ma guai agli imitatori di lui! Guai a chi volesse, soprattutto, imitarne lo stile. Questo, noi pure ne conveniamo, è, nei primi lavori del Livornese, gonfio e rettorico assai. Ma se ne corresse il Guerrazzi; e ciò può vedersi nel Pasquale Paoli, nell'Asino, nel Buco nel muro, nelle Vite del Doria, del Ferrucci, del Burlamacchi, nello Assedio di Roma, nel Secolo che muore, nei quali libri lo stile non ha i voli turbinosi che si notano negli altri, ma procede quasi sempre calmo e sereno per via naturale e piana.

       Nei primi lavori il Guerrazzi, come scrittore, non s'era ancora fatto; non aveva ancora una individualità propria. Era bensì l'innamorato di Giorgio Byron, il suo scolare. Il Guerrazzi si fece di poi e divenne originalissimo scrittore. A qualunque genere letterario ei si accostasse, sapeva trasformarlo ad immagine sua, vi lasciava la sua impronta.

       La fantasia che egli ebbe fu alata, fu poderosa, fu straordinaria; proprio. Se fosse stato poeta nel vero senso della parola, avrebbe rivaleggiato con l'Ariosto. Ma un Ariosto molto triste e fosco sarebbe stato egli!

       Romanziere, è il più immaginoso che abbia l'Italia. I romanzi di lui, sebbene s'intitolino da soggetti storici, sono, più che altra cosa, parti della sua fantasia.

       E, questa, nella sua corsa sbrigliata, non gli dava agio di fermarsi a considerare se quel carattere era umano, se quella situazione era naturale. Ed è cosi che i romanzi guerrazziani difettano spesso di umanità e di naturalezza. Ma non debbonsi giudicare coi criteri che del romanzo oggi abbiamo. Si pensi che il Guerrazzi non poteva essere un romanziere naturalista. Poi, egli aveva un genere di romanzo tutto suo; e, si aggiunga, un genere di storia, un genere di satira tutti suoi speciali. E, in quanto al genere satirico, che autore di satire il Guerrazzi! Ricorda Sterne ed Heine, ma non è nè l'uno nè l'altro; è lui, nessun altro che lui.

       Oltre che immaginosissimo romanziere e fine satirico, oltre che prosatore eletto, fu pure un erudito dei primi, da non scomparire nemmeno di fronte al Voltaire, che egli, anzi, si studiò d'imitare.

       La erudizione che egli ebbe fu varia e profonda, e la si trova disseminata nelle sue opere, siano romantiche, siano storiche, talora anche a scapito di queste, poi che a volte ne intralcia l'andamento e ne rende difficile la lettura.

       Se si fosse messo di proposito a scrivere di estetica sarebbe oggi tra i più poderosi nostri critici. Di questo ci assicurano moltissime sue pagine, nelle quali si ragiona d'arte con un senso del bello che pochi invero posseggono.

       Il Guerrazzi non va certamente immune da difetti, e noi, sebbene ammiratori fervidissimi di lui, ci guarderemmo dal proporlo in tutto e per tutto ad esempio. Ma egli va preso com'è, e, così com'è, è grande: grande tanto come scrittore quanto come cittadino.

      Livorno agosto 1888.

      G. Stiavelli.

      LA VENDETTA PATERNA

      «Maledetto chi non onora suo padre; — maledetto nella città, maledetto nella campagna —; io ti percuoterà con miseria, febbre, freddo, ardere, melume e malaria finchè tu muoia. — Il cielo sopra te sia di bronzo, la terra che tu calpesti di ferro. Il Signore sommuova dalla terra polvere, dal cielo piova cenere finchè tu vi rimanga sepolto; — ti dia in mano ai tuoi nemici; e mentre tu sorti per una via contro di loro, tu ne fugga per sette andando disperso per la terra. Il tuo cadavere diventi pasto di tutti i volatili del cielo, di tutte le bestie della terra, e nessuno lo porti via... Sii percosso d'insania, di pazzia, di furore di mente. — Va di mezzogiorno tentoni come il cieco nelle tenebre. — La tua moglie accolga nel suo braccio adulteri. — Fabbricherai la tua casa, ma non vi abiterai; pianterai la vigna, ma non la vendemmierai; ti uccideranno il bove, e tu non ne mangerai... e di questo si vedranno in te segni espressi, e prodigi.»

      Deuteronom. Cap. 27. 28.

       Indice

      «In quanto a capelli diventati bianchi tutto ad un tratto, notò un bandito mentre scuoteva la pipa per farne uscire la cenere del tabacco, ho inteso raccontare, che quando don Flaminio il Marchese di santa Prassede maledisse i suoi figliuoli, le imprecazioni del vecchio bruciassero i capelli su cotesti loro capì, e ne calcinassero i cervelli come pietra in fornace: insomma, che il fuoco di Sodoma non facesse men peggio, nè più tardi.»

      «Fanfaluche!» esclamò Orazio avviluppandosi nel gabbano, e mutando fianco sopra il letto di foglie, che si era fatto sotto la quercia.

      «E come potete voi affermare che le sono fanfaluche?»

      «Perchè lo so. — Ah!, soggiunse poi, troppo più dura sorte incolse a quei miseri.»

      «In fede di Dio, interrogò una voce diversa che usciva da un cespo, che cosa mai poteva loro accadere di peggio?»

      «Marco, rispose Orazio con parole lente, e parti poi gran male la morte se ti coglie subita, e improvvisa? Di minuto in minuto limarti anima e corpo, e mandarteli dispersi come limatura di ferro, allungarti l'agonia, e non darti la morte, lasciarti la smania di rifuggirti sotto terra, e levarti il fiato di percuoterla, e dire: o terra, cuoprimi! Questo vedi, Marco, è troppo peggio della famosa spinta che un giorno o l'altro ti darà mastro Alessandro, per la quale fa conto di trovarti nello altro mondo senza che tu te ne accorga nemmeno.»

      «E pure, riprese il bandito che fu primo a parlare, che il caso dei figli del Marchese di santa Prassede fosse successo per lo appunto come io l'aveva contato seppi per cosa certa da un cugino della cognata del guardaportone del palazzo Massimi, che di coteste faccende doveva essere a parte meglio di voi. A voi chi lo ha raccontato, Orazio?»

      «A me? Nessuno.»

       «Or dunque, come lo sapete?»

      «Io ho veduto morire i figli maledetti.»

      «La notte è lunga; e al sonno, quando posa su le palpebre del bandito, par di sedere su i pettini da lino: or dunque narraci questa storia, Orazio; noi ti staremo a udire.»

      «Io conto, e narro quando me ne piglia l'estro, disse Orazio riponendosi a giacere sopra il letto di foglie: — voi poi, soggiunse poco dopo, se non sapete logorare meglio o peggio il vostro tempo, fischiate.»

      Ma il giovanetto, che soleva cantare le canzoni composte da Orazio, gli si pose accanto; mise le mani incrociate sopra la sinistra spalla di quello, e sopra le mani appoggiò la guancia; poi levando dolcemente gli occhi, così prese piuttosto a mormorare, che a dire:

      «Racconta, mio buono Orazio, racconta. Dio ti ha creato apposta per raccontare, come il rosignolo per cantare. — Orazio, in dieci colpi di archibugio tu ne sbagli due; ma le tue storie valgono anche meglio dei tuoi tiri. Orazio, tu sai condurre una imboscata come il Cavaliere dei Pelliccioni[1]; ma più hai talento per esporre un racconto. Tu sai tutto; tu ti sei trovato a tutto. Io penso, che tu ti fossi presente quando Dio appiccò in mezzo al cielo il gran lampione del Sole; tu devi avere insegnato a Noè a pigiare l'uva; e se non portasti mattoni alla torre di Babele ha da essere caso. Se non sapessi che tu sei carne battezzata, io ti crederei quel cane di giudeo che negò a Cristo di riposare all'ombra della sua casa, onde ei ne va condannato a ramingare pel mondo fino alla consumazione dei secoli. Se il Papa ci offrisse una coppia dei suoi cardinali in cambio di te, noi gli diremmo: — Santo Padre, tienti i tuoi cardinali, e lasciaci il nostro Orazio. — Veda un poco papa Clemente se possiede in corte un fiore di lingua come sei tu: forse il Baronio, che scrive storie da far dormire ritti? Racconta, Orazio, racconta una storia; tando tu ci metti quanto a cogliere una rappa di finocchio, e a strofinartene i denti.»

      Orazio a mano a mano che il giovanetto parlava si levò su la vita a sedere, gli toccò carezzando i capelli, e così

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