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e la gente batte le mani. Posso farlo, se voglio. E lo voglio fare. Lo fecero, il tale e il tale che sono poveri come me, e non hanno più testa di me. Son capace a star levato la notte, io. Non ho lume? Ma io mi farò dare i mozziconi di candela dal vicino. Non ho posto in casa? Ma io studierò magari sul pianerottolo. Mi verrà sonno? E io mi griderò da me stesso: — Su!

      Chi sa, al suono di quella banda e di quegli applausi, in quei cervellini esaltati, che germi di nobili ambizioni si svolgono, quanti bei propositi di sacrifizio e di lavoro si formano, quali speranze, quali visioni lontane di gloria e di felicità balenano! Forse anche quello spettacolo è cagione ed alimento di dolori segreti. Molti fanciulli avranno faticato e sperato, e furono delusi; la medaglia fregiò il petto d’un altro; essi lo vedono là, fra gli altri, orgoglioso e felice; forse, tornati a casa, si lasceranno vincere dallo sconforto, si gitteranno nelle braccia dei genitori, si metteranno a piangere. Non importa, sono dolori salutari e fecondi. Molti anni dopo, quando saranno uomini, travagliati da triste passioni, afflitti da molti disinganni, forse nel momento in cui l’amor del lavoro, il senso del bene, il proposito antico d’una vita tranquilla ed onesta, ogni cosa sarà sul punto di staccarglisi dall’anima e andar perduto per sempre, forse in quel momento sarà per loro un richiamo amoroso e potente, il ricordarsi d’aver pianto calde lagrime per una medaglia di scuola. È un insegnamento, questo spettacolo, è una ispirazione pei fanciulli, pei parenti, per tutti.

      Infelice colui che, nell’udir quei canti, non s’è sentito qualcosa nell’anima aprirsi e dilatarsi oltre il giro dei pensieri e dei sentimenti consueti, come un largo spazio sereno che rompa all’improvviso un cielo velato; colui che in quel coro di voci non credette di risentire in confuso il suono d’una voce severa che gli diceva un giorno: — Studia! — E un’altra più sommessa e affettuosa, quasi eco della prima, che soggiungeva: — Sii buono; — colui che non ha sentito in quelle voci quasi un’ammonizione, un consiglio, un eccitamento al lavoro; colui che non ha sentito il desiderio di procurarsi, lavorando, almeno un istante della gioia ineffabile che splendeva negli occhi di que’ premiati; colui che non ha fermato il proposito di procurare ai suoi parenti, vecchi e lontani, un raggio della consolazione altiera e serena che brillava sul volto di quelli che aveva dinanzi; colui che non s’è rammaricato di non avergliela data, quella consolazione, quando era fanciullo, di non aver mai pensato a dargliela, di aver forse deriso chi vegliava e sudava a quello scopo; colui che non sentendosi mosso con un misto di smania fanciullesca e di risoluzione virile, a ricominciare, a riparare, a riguadagnare il tempo perduto, non ha provato un sentimento di gratitudine per cotesti bambini, i quali, senza saperlo, ci rimproverano e ci insegnano tante cose; colui infine, che disperando di poter risuscitare le loro speranze e riaccendersi del loro ardore, non li ha almeno amati e invidiati.

      Ma il pensiero non s’arresta a quella folla di bambini che abbiamo visti ed intesi; la fantasia si spinge molto al di là del recinto ove furono raccolti; intravede molte migliaia di teste bionde, altre moltitudini, compatte, l’une dietro le altre, man mano più confuse, fino a perdersi lontano in un diffuso color d’oro e di rosa; ed anco da quell’ultime lontananze ci giungono all’orecchio musiche e canti. È tutta la generazione italiana che sorge, che si affaccia alla vita salutando la patria con un grande inno al lavoro. Essa porta con sè una età migliore; noi non la vedremo; che monta? Benedette queste legioni di bambini che ce la promettono, che ce l’annunziano, che ci avvertono che il tempo è rapido e che siamo incalzati sul cammino della vita, che ci ammoniscono affinchè ci affrettiamo a pagare a Dio, all’umanità e alla patria il nostro debito di lavoro e di buone opere.

      Benedetto questo grandioso concerto di voci infantili; è il grido che infiamma noi, — fiacchi soldati, — alla battaglia; ne abbiamo bisogno; esso ci fa sollecitare il passo e levare la fronte al cielo.

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