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eragli così profondamente impressa nell'animo. Quando l'infelice era stato ucciso in quel duello fatale dal marito di lei, il padre di Adolfo aveva consentito che Antonio prendesse nello studio del morto amico, tutti quegli oggetti che preferisse a memoria di lui. Vanardi, fra le altre cose, aveva preso questo ritratto. Tutto il resto era sparito poco a poco sotto la crescente stretta del bisogno; ma il ritratto di Gina era ancora lì, e Antonio aveva giurato di conservarlo ad ogni patto sino alla morte.

      Di belle volte per questa cagione erano già avvenute delle dispute fra Vanardi e sua moglie. Costei non sapeva il perchè suo marito ci volesse tener tanto al possesso di quell'inutile ornamento, e come mai, avendo vendute tante cose assai più necessarie, non volesse manco udire a discorrere di sbarazzarsi di quel dipinto. Inutilmente Antonio le aveva contato tutta la storia; la Rosina tentennava il capo, ne sentiva o fingeva sentirne sempre i sospetti più ingiuriosi intorno alla fede del marito, e di quando in quando ne pigliava pretesto, come se altri e troppi pretesti non ci fossero già, per una buona sfuriata.

      In questo momento in cui v'introduco nel misero alloggio di questa famigliuola, intorno alla quale vedremo svolgersi le scene del dramma che ho intrapreso di raccontarvi, tutti i componenti della medesima sono raccolti nel secondo scompartimento dell'unica stanzaccia.

      Antonio passeggia in lungo ed in largo, le mani in tasca, la chioma rabbuffata, le orecchie livide pel freddo, la barba ispida, una pipa spenta in bocca, battendo i piedi di quando in quando, tutto, a vederlo, rattrappito dall'intirizzimento. Rosina siede vicino al deschetto e rappezza, con mani che hanno il colore delle orecchie di suo marito, dei logori panni pei bambini; innanzi a lei v'è la culla e in essa il piccino: ella col piede lo fa dondolare perchè dorma e gli va canticchiando una tediosa cantilena che interrompe tratto tratto per discorrere coll'uomo; i tre altri bambini ruzzano qua e là per la casa e fanno un diavoleto da toglier la testa.

      Come già ho accennato, la Rosina non può dirsi bella; ma possiede un'aria tra la capricciosa e l'allegra che può piacere. Ha il capo avvolto in un fazzoletto logoro di panno-cotone; le spalle e il seno ha serrati da uno scialle di lana a brandelli, e tratto tratto deve interrompersi nel suo cucire per soffiarsi sulle dita delle mani pavonazze, non bastantemente difese dal freddo per certi mezzi guanti di grossa lana in maglia.

      —Sicuro! diceva essa tutto ingrognata; il signor Marone ha detto che passerebbe quest'oggi senza fallo… e non ci manca di certo… e vuol essere pagato, quell'impostore birbone… e tu sai che uomo egli è!… E tu stai lì colle mani in tasca come un melenso che tu sei; e noi ci toccherà andar nella strada con questo bel caldo… e me mi converrà trascinarmi dietro e portarmi in collo i bambini ed andare accattonando, che Dio ti… Uh! me la faresti dire.

      Antonio chinava il capo e camminava più lesto.

      Il bambino, cui la mamma avea cessato di cullare e che non sentiva più la cantilena della ninna nanna, si cacciava a strillare: i due più grandicelli, rincorrendosi l'un l'altro, rovesciavano una seggiola e finivano di romperle una gamba.

      —Eh! vuoi tacere! esclamava impazientita Rosina, ripigliando a dondolare rabbiosamente la culla, e tirando l'ago più rabbiosamente ancora: che sbraitatore è questo biricchino! E' mi vuol far diventar tisica… La li la lerà, la li la lerà… Volete finirla anche voi altri, sbarrazzini, che ora mi alzo e vi tocco il tempo io di santa ragione!… Dio buono! Ecco che mi hanno fracassato la sedia… Volete star fermi una santa volta!… Non avrete da colazione; ecco lì… La li la lerà, la li la lerà, la li là là.

      I ragazzi, all'intemerata materna, si guardavano per di sotto tra di loro, timorosi, e quietavano un poco; il bambino cullato, sentendo ripresa la cantilena, cessava dal piangere; succedeva un istante di tranquillità.

      —Ma come fare? come fare? dimandava Antonio parlando a sè stesso.

      —Come fare? ripigliava stizzosa la Rosina. Sta a vedere che ha da essere la donna a trar d'impiccio un omaccione di quel calibro… Ma gli è da lungo tempo che ci avresti dovuto pensare e provvedere… e non aspettare che si fosse proprio allo stremo come siam'ora… Via, sta buono, Carlinuccio… oh, oh, oh, il bel cuorino… fa la nanna, via ghiottoncello… sì, carino, sì bellino… che il diavolo lo porti; questo maledetto è il fistolo, tant'è fastidioso!

      E tornava a cantare per acchetarlo.

      —Papà, ho fame! gridava il primo dei fanciulli.

      —Sta zitto. La mamma ti ha messo in penitenza… Non avrai da colazione.

      —Ih! ih! ih! Io ho fame, io…

      —Ed anch'io, ed anch'io; gridavano gli altri due marmocchi.

      —Volete finirla? sclamava la madre.

      —Ih! ih! ih!…

      E i tre ragazzi piangevano di conserva e della più bella.

      —Giuggiole! che delizia! gridò Antonio levando le mani di tasca per cacciarseli entro i capelli: e corse al desco, ne tirò fuori a mezzo il cassetto, vi prese dentro un tòcco di pane inferrigno che c'era, lo divise in tre pezzi e ne porse uno a ciascuno de' ragazzi.

      I quali, con un'unanimità maravigliosa d'avviso, cessarono di botto dal piangere per mordere dentro il pane a piena bocca.

      Ma non tacque la Rosina.

      —Che storia è questa? saltò su essa cessando dal cucire per mettersi le mani sui fianchi, incollerita. Che cosa sono io? un ceppo forse? o un coccio? o una pantofola? Ho detto che quei furfanti sarebbero stati senza colazione; ed è a quel modo che tu insegni a' figliuoli a rispettare la mamma? Che sì, ch'io non so chi mi tenga dall'andar a levar loro quel tozzo di mano e trartelo sul naso a te che più che vizi non sai dare a que' martuffini, degni figli tuoi… E veramente che sei tu a guadagnar loro il pane! Quell'avanzo lì, sai che cos'è? È l'ultimo resto de' miei pendentini d'oro che si sono portati al Monte… Ma tu hai in dispregio la moglie…

      —Ma no, ma no, protestò Antonio.

      —Ma sì, ma sì; insistette la Rosina; e vuoi che anche i tuoi bambocci abbiano in un calzetto la mamma…

      —Via, via Rosina: disse Antonio umilmente, stai buona; vuoi che lasciassi romperci i timpani da que' strilli?…

      —Uhè! uhè! uhè! cominciò il bimbo nella cuna, il quale non era più dondolato.

      —Oh che vita! oh che vita! esclamò la Rosina rimettendosi ad agitare la culla.

      —Oh che vita! oh che vita! ripetè Antonio riprendendo la sua passeggiata traverso la stanza.

      Così stettero un poco senza parlare nè l'un nè l'altro.

      Antonio fu il primo a riappiccare il discorso.

      —Se provassi ancora una volta a ricorrere a mio zio? diss'egli piantandosi innanzi alla moglie.

      Questa crollò le spalle e non levò neppure il capo dal suo lavoro.

      —Eh? che ne dici? insistette il marito.

      —Tuo zio è un cane: rispose brusca brusca la Rosina: e tu…. tu sei un altro animale.

      —Un asino: suggerì Antonio: dillo pure.

      —L'hai detto tu!

      —Grazie tante!

      Ed Antonio si rimise ad andare e venire.

      —Vuoi star fermo una volta? gridò dopo un poco la moglie. Tu sembri l'arcolaio della strega che va e che va…. e m'hai già fatto tanto di testa.

      —Oh! la mia arte! la mia arte! esclamò il marito arrestandosi di botto. Che cosa fa l'arte mia che dovrebb'esser quella a darmi la salvezza?

      —Bell'arte la tua! se ne vedono gli effetti.

      —Oh! un'idea! gridò Antonio percotendosi la fronte.

      —Che?

      —Forse ho trovato il modo di farmi conoscere, di ammansare mio padrino, di trovar lavoro e di farmi aprir le braccia dallo zio.

      —Sentiamolo

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