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la bocca al suo orecchio vi sussurrò dentro una parola…

      Beatrice declina la faccia livida; si scioglie dallo amplesso del padre, si reca in collo il fratello giacente, e nel partirsi manda contro Francesco Cènci uno sguardo lungo—un fulmine di disprezzo—ch'ebbe potenza d'impietrire il sangue nelle vene a colui, che non temeva uomini, nè Dio.

      Egli rimase lungamente immobile, chiuso dentro un profondo pensiero: colà nel suo spirito prese a imperversare una tremenda procella. Ma la voce del male vinceva il muggito dell'uragano; la voce del bene disperata era, e fuggitiva come quella del naufrago. Quali pensieri gli si avvolsero nella mente? Di che cosa dubitò? Che cosa statuì? Chi lo sa! Forse lo stesso Demonio, se si fosse affacciato a vedere lo inferno dell'anima di Francesco Cènci, avrebbe volto altrove impaurito la faccia. Però è da credersi, che in cotesta vertigine di maligni partiti egli si appigliasse al peggiore; conciosiachè battendosi forte della palma destra la fronte, digrignasse fra i denti:

      «Or come va? Io, che presumerei comandare al giorno quando si affaccia all'orizzonte: «addietro! splenderai quando te ne darò licenza…» ecco io mi sento arrestare in mezzo del mio cammino da meno, che da un filo di paglia, dalla volontà di una fanciulla. Ahi sciagurata! Il vetro potrà egli resistere, sotto al martello del fabbro? Tutto ha piegato fin qui nella stretta della mia mano di ferro; e tu pure piegherai—o ti stritolerò ad un punto anima ed ossa.

      NOTE

      [1] Ah! quella chioma Che la delizia fea già degli Amori, Che con le rosee dita all'aura spesso Spargeanla, allor che Beatrice lieta Nei più bei dì di sua bellezza, ai raggi La apponeva del Sole, e lo vincea.

      ANFOSSI, Beatrice Cènci.

      [2] PETRARCA, Trionfo d'Amore, C. I.

      [3] Idem, Rime in morte di Madonna Laura. Son. 63.

      [4] Il testo allude ad un fatto narrato da parecchi scrittori dell'antichità. Intorno alla fede ch'ei merita lasciamo che ogni uomo leggendo ne giudichi. La verità è, che Tiberio intendeva riporre Gesù Cristo fra li Dei, e ne mosse proposta in senato; e fu ventura che non ce lo volessero. Intorno al fatto lo riporteremo tal come lo racconta PLUTARCO, nell'opuscolo—degli Oracoli già cessati:—«Trovandosi il vascello del pilota Jamo presso alcune isole del mare Egèo, improvvisamente cessò il vento. Tutte le persone della nave erano ben deste e quasi tutte se la passavano bevendo insieme, allorchè tutto ad un tratto udirono una voce, che veniva dalle isole, e chiamava Jamo. Questi si lasciò due volle chiamare senza rispondere, ma alla terza finalmente non potè più resistere. Quella voce gli comandò, che appena foss'egli arrivato ad un certo luogo dovesse ad alta voce gridare, che il gran Pane era morto. Non vi fu alcuno che non rimanesse colto dallo spavento. Stavasi deliberando se Jamo dovesse obbedire; ma egli stesso conchiuse, che allorquando fossero giunti al luogo indicato, se eravi vento bastante per proseguire il cammino non era necessario dir nulla; ma che se fossero stati ivi trattenuti da troppa calma, era d'uopo eseguire l'ordine ricevuto. Non mancò infatti di sopraggiungere la calma nell'accennato luogo: ond'egli tostamente si diede a gridare ad alta voce esser morto il gran Pane. Appena ebbe terminato di parlare, da tutte le parti udironsi gemiti e pianti come di un gran numero di persone da tal nuova sorprese, ed afflitte. Tutti coloro ch'erano in nave furono testimoni di tale avventura: a poco a poco se ne sparsero le voci fino a Roma; e avendo lo imperatore Tiberio voluto vedere Jamo in persona, unì alcuni dotti per apprendere da loro chi fosse.»… Che poi il gran Pane fosse Gesù Cristo, vedilo in BOCCACCIO, Genealogia degli Dei, là dove parla del dio Pane.

       Indice

      LA CHIESA DI SAN TOMMASO.

      …..E Belzebub in mezzo.

       PETRARCA, Sonetti.

      «Tanto egli odiava questi suoi figliuoli, che aveva

       fatto nel cortile del suo palazzo una chiesa dedicata

       a san Tommaso, col solo pensiero di seppellirveli

       tutti».

       NOVAES, Storia.

      La chiesa di san Tommaso dei Cènci, comecchè in parte mutata da quello che era, sta tuttavia. Lo dicono monumento vetustissimo, e già ebbe nome: De Fraternitate, ed anche in Capite Molae, o Molarum. Questa notizia ricavasi dal diploma di papa Urbano III ai Canonici di san Lorenzo in Damaso. La chiamarono poi in Capite Molarum come quella che sorgeva prossima al molino della Regola, là dove il Tevere rimase interrato fino dal 1775; e De Fraternitate, ed anche Romanae fraternitatis caput, forse perchè quivi fondarono la prima confraternita donde trassero in successo di tempo esempio e titolo le altre confraternite di Roma. Narra la fama, che il Cincio, vescovo di Sabina, nel 1113 ne consacrasse l'altare. Giulio III la concedeva in giuspatronato a Rocco Cènci nel 1554, con obbligo di restaurarla; cosa che, per essere soprappreso dalla morte, egli non potè adempire; laonde Pio IV nel 1565 spedì nuovamente la Bolla d'investitura a favore di Francesco Cènci figlio di Cristofano, imponendogli il medesimo carico; al quale egli soddisfece, secondo che attesta la seguente iscrizione poeta sopra i muri esterni della chiesa:

      Franciscus Cincius Christophori filìus Et Ecclesiae patronus, Templam hoc Rebus ad divinum cultum et ornatum Necessariis ad perpetuam Rei memorìam exornari ac perfici Curavit. Anno Jubilei 1575[1].

      Quel marmo attestava a chiunque passasse quale, e quanta fosse la pietà di Francesco Conte dei Cènci!—Cosi quasi sempre riscontriamo sinceri gli epitaffi, le iscrizioni, le gazzette officiali, e le orazioni funebri dei cappellani di Corte.

      La chiesa ha forma, a un dipresso, quadrata. Condotta di un miscuglio di ordine dorico, presenta cotesta sconcia depravazione dell'arte, che gli artisti costumano significare col nome di barocco. Contiene cinque cappelle; ha soffitto a crociere, dove anche nei giorni che corrono possiamo osservare l'arme dei Cènci, che fa per impresa campo squartato di bianco e di rosso, con tre lune rosse in campo bianco, e tre lune bianche in campo rosso.

      All'altare maggiore si vede un quadro dipinto a olio della maniera del secolo sesto, o di poco anteriore: è di buona scuola, e rappresenta san Tommaso che tocca la piaga a Gesù. A sinistra dello altare stesso venerano un Crocifisso dipinto, opera del secolo decimo secondo, e a questo alludeva Virgilio nel suo colloquio con Beatrice.

      Intorno a lui raccontami mirabilissime cose. Certo manoscritto antico conservato una volta, e forse anche adesso, nel Campidoglio (non però commesso alla custodia delle oche che salvarono la rupe Tarpeia), firmato da Giacomo Cènci, dichiara come il padre Guardiano in Araceli donasse la prefata devota immagine al medesimo Giacomo, e con giuramento gli affermasse avere davanti a quella più e più volte fatta orazione san Gregorio Magno: nè il buon padre Guardiano si fermava qui; che, proseguendo nella narrazione, attestavagli, cotesto Cristo avere usanza tratto tratto operare miracoli. Se anche di presente la immagine ritenga siffatta virtù, o se l'abbia trasferita in altre, come sarebbe la immagine di Nostra Donna di Rimini, che apre e chiude gli occhi, o l'altra di Tredozio, che piange a un punto e ride[2], io non saprei accertare per ora; ma quando prima sarò, se piace a Dio, liberato dal carcere, mi propongo raccogliere più ampie notizie, e ragguagliarne i miei devoti lettori. Quello però che conosco di certo si è, che il Cristo di san Gregorio Magno per tutto il tempo che durò la vita di Giacomo Cènci si ostinò a non fare miracoli; ed ecco come andò la faccenda.

      Fra Brancazio, (tale era il nome del Guardiano di Araceli) senza che faccia nemmeno mestieri dichiararlo, non donava mica il Cristo per nulla; all'opposto egli imponeva al donatario: primo, che restaurasse a sue spese la facciata della chiesa dei reverendi Padri Francescani in Araceli, il che fu adempito; secondo a rifornire la sacrestia di pianete, piviali, dalmatiche, ammitti, roccetti e simili altri arredi, ed anche questo fu fatto; terzo a fondare una messa quotidiana perpetua all'altare di san Francesco con la elemosina di un ducato, ed anche la messa quotidiana fu fondata: e così i dabbene

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