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da giuoco.

      Fra quelle persone v'era chi conosceva il nome di Giorgio Anderssen come quello d'uno fra i più celebri giuocatori a scacchi d'America e costoro prendevano un particolare interessamento alla scena che stava per incominciare. Giorgio Anderssen, originario d'una nobile famiglia inglese emigrata a Washington, si era fatto quasi milionario sulla scacchiera. Giovane ancora, aveva già vinto Harwitz, Hampe, Szen e tutti i più sapienti giuocatori dell'epoca. Questo era l'uomo che si misurava col povero Tom.

      Prima che Anderssen avesse avuto tempo di muovere la prima pedina, il negro prese dalla sua destra la candela che era rimasta accesa sul tavolo da giuoco e la collocò a sinistra. Anderssen notò quel movimento e pensò meravigliato:—Quest'uomo ha certamente letto la Repeticio de Arte de Axedre di Lucena e segue il precetto che dice: "Se giocate la sera al lume d'una candela, mettetela a sinistra; i vostri occhi saranno meno offesi dalla luce ed avrete già un grande vantaggio a fronte dell'avversario"—; e pensando ciò, prese i suoi occhiali affumicati e se li piantò sul naso; poi staccò la prima mossa. Indi si volse a coloro che s'erano fatti attorno e disse con gaia disinvoltura:—I primi movimenti del giuoco degli scacchi sono come le prime parole d'una conversazione, s'assomigliano sempre; eccoli: pedina bianca, due passi; pedina nera, due passi; poi gambito di re, ecc. ecc. ecc.—E così, ciarlando sbadatamente, fece la seconda mossa e mise avanti due passi la pedina dell'alfiere di re, aspettando che l'avversario gliela prendesse colla sua. Il negro non prese la pedina, ma invece con una mossa meno regolare difese la pedina propria sollevando il suo alfiere di re sulla terza casa della regina. Anderssen rimase un po' sorpreso anche di ciò e pensò:—Quest'uomo risparmia le pedine; segue il sistema di Philidor che le chiamava l'anima del giuoco.

      Seguirono ancora cinque o sei mosse d'apertura; i due giuocatori si esploravano l'un l'altro come due eserciti che stanno per attaccarsi, come due boxeurs che si squadrano prima della lotta. L'Americano, abituato alle vittorie, non temeva menomamente il suo antagonista; sapeva inoltre quanto l'intelletto d'un negro, per educato che fosse, poteva fievolmente competere con quello d'un bianco e tanto meno con Giorgio Anderssen, col vincitore dei vincitori. Pure non perdeva di vista il minimo segno del nemico; una certa inquietudine lo costringeva a studiarlo e, senza parere, lo andava spiando più sulla faccia che sulla scacchiera. Egli aveva capito fin dal principio che le mosse del negro erano illogiche, fiacche, confuse; ma aveva anche veduto che il suo sguardo e gli atteggiamenti della sua fronte erano profondi. L'occhio del bianco guardava il volto del negro, l'occhio del negro era immerso nella scacchiera. Non avevano giuocato in tutto che sette od otto mosse e già apparivano evidenti due sistemi diametralmente opposti di strategia.

      La marcia dell'Americano era trionfale e simmetrica, rassomigliava alle prime evoluzioni d'una grande armata che entra in una grande battaglia; l'ordine, quel primo elemento della forza, reggeva tutto il giuoco dei bianchi. I cavalli, che dagli antichi erano chiamati i "piedi degli scacchi", occupavano uno l'estrema destra, l'altro l'estrema sinistra; due pedoni erano andati ad ingrossare da una e dall'altra parte l'avamposto segnato dalla pedina del re; la regina minacciava da un lato, l'alfiere di re dall'altro lato, ed il secondo alfiere teneva il centro davanti due passi del re e dietro le pedine. La posizione dei bianchi era più che simmetrica: era geometrica; l'individuo che disponeva così quei pezzi d'avorio, non giuocava ad un giuoco, meditava una scienza; la sua mano piombava sicura, infallibile sullo scacco, percorreva il diagramma, poi s'arrestava al punto voluto colla calma del matematico che stende un problema sulla lavagna. La posizione dei bianchi offendeva tutto e difendeva tutto; era formidabile in ciò che circoscriveva l'inimico ad un ristrettissimo campo d'azione e, per così dire, lo soffocava. Immaginatevi una parete animata che s'avanzi e pensate che i neri erano schiacciati fra la sponda della scacchiera e questa parete, poderosa, incrollabile.

      A volte pare che anche le cose inanimate prendano gli atteggiamenti dell'uomo, il più frivolo oggetto può diventare espressivo a seconda di ciò che lo attornia. Ecco perché i pezzi d'ebano de' quali componevasi l'armata dei neri, parevano, davanti allo spaventoso assalto dei bianchi, colti anch'essi da un tragico sgomento. I cavalli, come adombrati, voltavano la schiena all'attacco, le pedine sgominate avevano perduto l'allineamento, il re che s'era affrettato a roccarsi, pareva piangere nel suo cantuccio il disonore della sua fuga. La mano di Tom, fosca come la notte, errava tremando sulla scacchiera.

      Questo era l'aspetto della partita veduta dal lato dell'Americano. Mutiamo campo. Veduto dal lato del negro l'aspetto della partita si rovesciava. Al sistema dell'ordine sviluppato dall'apertura dei bianchi, il negro contrapponeva il sistema del più completo disordine; mentre quegli si schierava simmetrico, questi si agglomerava confuso, quegli poneva ogni sua forza nell'equilibrio dell'offesa e della difesa, questi aumentava ad ogni passo il proprio squilibrio, il quale, pel crescente ingrossar della sua massa, diventava esso pure, in faccia allo schieramento dei bianchi, una vera forza, una vera minaccia. Era la minaccia della catapulta contro il muro del forte, della carica contro il carré: mano mano che la parete mobile del bianco s'avanzava, il proiettile del negro si faceva più possente. I due eserciti erano completi uno a fronte dell'altro; non mancava né un solo pezzo né una sola pedina, e codesta riserva d'ambe le parti era feroce. L'Americano non iscorgeva in sul principio nella posizione del negro che una inetta confusione prodotta dal timor panico del povero Tom; ma appunto per la sua inettitudine gli pareva che quella posizione impedisse un regolare e decisivo assalto. Ma il negro vedeva in quella confusione qualcosa di più: tutta la sua natural tattica di schiavo, tutta l'astuzia dell'etiopico era condensata in quelle mosse. Quel disordine era fatto ad arte per nascondere l'agguato, le pedine fingevano la rotta per ingannare il nemico, i cavalli fingevano lo sgomento, il re fingeva la fuga. Quello squilibrio aveva un perno, quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un concetto. L'alfiere che Tom aveva collocato fin dal principio alla terza casa della regina, era quel perno, quel capo, quel concetto. Le torri, le pedine, i cavalli, la regina stessa attorniavano, obbedivano, difendevano quell'alfiere. Era appunto l'alfiere ch'era stato rotto ed aggiustato dall'Americano; un filo sanguigno di ceralacca gli rigava la fronte e calando giù per la guancia, gli circondava il collo. Quel pezzo di legno nero era eroico a vedersi; pareva un guerriero ferito che s'ostinasse a combattere fino alla morte; la testa insanguinata gli crollava un po' verso il petto con tragico abbattimento; pareva che guardasse anche lui, come il negro che lo giuocava, la fatale scacchiera; pareva che guatasse di sott'occhi l'avversario e aspettasse stoicamente l'offesa o la meditasse misteriosamente. Nel cervello di Tom quello era il pezzo segnato della partita; egli vedeva colla sua immaginosa ed acuta fantasia diramarsi sotto i piedi dell'alfier nero due fili, i quali, sprofondandosi nel legno del diagramma e passando sotto a tutti gli ostacoli nemici, andavano a finire come due raggi di mina ai due angoli opposti del campo bianco. Egli attendeva con trepidazione una mossa sola, l'arroccamento del re avversario, per dare sviluppo al suo recondito pensiero. Senza quella mossa tutto il suo piano andava fallito; ma era quasi impossibile che Anderssen ommettesse quella mossa. Tom solo vedeva e sapeva la sua occulta cospirazione e nessun giuocatore al mondo avrebbe potuto indovinarla. Al vasto ed armonico concepimento del bianco, il negro opponeva questa idea fissa: l'alfiere segnato; alla ubiquità ordinata delle forze dei bianchi i neri opponevano la loro farraginosa unità, al giuoco aperto e sano il giuoco nascosto e maniaco. Anderssen combatteva colla scienza e col calcolo, Tom colla ispirazione e col caso; uno faceva la battaglia di Waterloo, l'altro la rivoluzione di San Domingo. L'alfier nero era l'Ogè di quella rivoluzione.

      La partita durava già da un paio d'ore; erano circa le nove della sera; alcune signore si allontanarono dalla scacchiera, stanche d'osservare, per darsi quale ad un lavoro, quale ad un ricamo, e quale, caricando e ricaricando la pistoletta da sala, si dilettava al piccolo bersaglio.

      I due antagonisti erano sempre fissi al loro posto. L'Americano, che non vedeva ancora lo scaccomatto e che non capiva la selvaggia tattica del negro, cominciava ad annoiarsi ed a pentirsi dell'eccessiva cortesia che l'aveva spinto a quella partita. Avrebbe voluto finirla presto ad ogni costo, anche a costo di perdere; ma dall'altra parte il suo orgoglio di razza glielo impediva; un bianco ed un gentiluomo non poteva esser vinto da uno schiavo; inoltre la sua coscienza di gran giuocatore e il lungo studio de' scacchi non gli permetteva di fare un passo che non fosse pensato. Giunto alla quindicesima mossa, s'accorse che il suo re non s'era ancora arroccato, alzò le mani, colla sinistra sollevò il re,

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