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più male, fammi sempre più male». Non eviterò mai nessuna pena, né a voi né a me. Fuggite, giacché avete le ali, giacché studiate il vento.

      Ella non sorrideva; ma sembrava che s'appoggiasse su ogni parola come per comunicare a ciascuna il suo proprio peso, il peso della sua potenza e della sua imperfezione e di tutto l'ignoto ch'ella portava dentro. E gli stridi delle rondini su per gli stagni le fendevano l'anima come il diamante fende il vetro, e dubbio è qual dei due strida.

       — Amico, amico, — ella proruppe, di sùbito invasa da uno scoraggiamento ansioso, quasi che la corsa rallentata e il giorno declinante le diminuissero il respiro — no, non m'ascoltate, non mi rispondete. Non parlate più, non voglio più parlare. Non vi farò mai tanto male quanto ne fa a me la più piccola di quelle foglie, e tutto questo cielo!

      Divine erano la dolcezza e la tristezza del giorno su la pace della pianura ove le ombre e le acque e l'arte agreste avean composta una ordinanza tanto semplice che pareva condotta secondo il flauto di tre note tagliato nella canna palustre. I salci spogli, con una lieve ghirlanda di frondi in sommo, miravano negli stagni riflesso un aspetto tanto socievole che pareva si fosser già tenuti per mano e allora allor disgiunti dopo una danza serena. E tanto eran fresche le ninfee nei canali che la donna credeva sentirne l'umidità intorno ai suoi propri occhi arsi.

      — Aldo e Vana saranno ancóra molto in dietro? — domandò ella con un'ansia oscura che non si placava.

      — Ci raggiungeranno.

      — Andiamo! Andiamo!

      Paolo Tarsis accelerò la corsa. Il vortice di polvere, il rombo guerresco, l'ululo della sirena respinsero la mite e straziante melodia.

       Apparivano in lontananza le mura rossastre, i baluardi saglienti, le torri quadrangolari della città forte.

      — Mia sorella non vi piaceva più di me, prima? — disse ella ancóra, con un tono acre di provocazione, sollevando gli angoli della bocca a fiore delle gencive nel sorriso irritato e come sospeso sopra un poco di sangue roseo.

      — Non volevate più parlare, Isabella.

      Una inquietudine intollerabile agitava la donna, come s'ella dovesse dire e fare qualche cosa che sola in quel punto era consentanea a sé e al tutto ma non potesse né dire né far quella, anzi la contrariasse con ogni pensiero, con ogni parola, con ogni movimento e perfino col polso, col respiro. E stava curva come sotto la tempesta, come per comprimere la sua vita e opporsi a un salire subitaneo di onde ch'ella non sapeva se recassero il bisogno di ridere o di piangere. E, provando un dolor sordo alle scapole, propagava ella medesima quel dolore fino alle dita dei suoi piedi e delle sue mani, con la pietà d'esso dolore. Ed ecco, la stanchezza la occupava come il nero peso d'un sonnifero e le dava una voglia accorata di piegare il capo su la spalla del compagno e di dimenticarsi in un letargo senza fine. Ed ecco, tutte le forze del suo desiderio con tutte le imagini della voluttà le balzavano dentro e rotavano in una vertigine di delirio.

       — È il più lungo giorno! — esclamò, come chi si risvegli nel sussulto dei ricordarsi. — Oggi è il più lungo giorno, è il solstizio d'estate. Non lo sapete?

      E per alcuni attimi aspettò che la mano sinistra del compagno lasciasse il volante e la toccasse, nella speranza impetuosa che una novità nascesse da quel tocco. E tutta la sua anima si dibatteva sbigottita con un fremito innumerevole come se tutte quelle rondini vive fossero prese in una rete sola e nel terrore si rompessero le penne.

      Contratto egli taceva, intento a dominare sé stesso, la sua macchina fida e infida. Ed ella volle guardarlo deformato nel rame del fanale; e più parole crudeli trovò per ferirlo, e non ne scelse alcuna ma le contenne e n'accrebbe il suo rancore. E cercò qualche altra cosa da opporre a quel male, da gettare a quella specie d'insana fame che distruggeva in lei l'intera massa della vita vissuta e non le lasciava su la lingua se non un gusto di sangue e di polvere.

      Allora le ingiurie rauche e i pugni tesi dei cozzoni di cavalli le raddrizzarono in un sussulto energico le reni indolenzite.

      — Avanti! Non vi fermate! Avanti!

      La mandra scalpitava sprangava s'impennava intorno alla macchina fragorosa: lunghe criniere, lunghe code arrossate dall'intemperie; teste montonine con la favilla bianca dello spavento nell'angolo dell'occhio; poledri villosi come orsatti, su le alte gambe gracili; e l'urto degli zoccoli, e l'onda delle groppe, e l'odor selvaggio nel soffocante nuvolo.

      — Muoio di sete — ella disse, quando il tumulto e il clamore furono superati. — Ho sete di quell'acqua verde; ho voglia d'inginocchiarmi sul margine e di tuffare il viso tra due ninfee.

      Ella sollevò il velo, mostrò il viso nudo. Egli si volse a guardarla, con qualcosa di cavo nel petto, ch'era come l'impronta di quella nudità sempre nuova. Ella si prendeva le labbra tra i denti alternamente, inumidendole d'una stilla tratta con uno sforzo penoso dal fondo della gola. E i suoi occhi parevano aver perduta la pupilla, erano senza centro, pieni d'un tremolìo chiaro di forze che scaturivano dal buio come il gorgóglio delle dure polle nel letto delle fontane; e il segno nero nell'orlo della pàlpebra inferiore, segnato dall'arte mattutina, persisteva netto rilevando l'inumana chiarità delle iridi, allargando la larga orbita, appassionando la bellezza per la volontà di farsi più acuta.

      — Ah, che cielo! Non lo vedete?

      Era pallido il cielo, quasi candido, con un'apparenza eguale, eppure per ovunque variato come una mescolanza indefinita di ardori che salissero dalla terra e scendessero dal sommo, come una fluttuazione continua di cose diafane e sensibili che quella faccia riversa ricevesse su i cigli e con un battito di cigli rimandasse fino ai limiti del silenzio.

      — Che faremo?

      La sua ansia le diceva che il suo destino era sospeso nella luce del più lungo giorno. Ella aveva dinanzi a sé l'imagine della sua felicità riversa come la sua faccia nell'atto di mordere il dolore come un frutto maturo che la bagnasse di succo vermiglio. E non sapeva se volesse continuare senza termine quella corsa o se volesse fare una sosta in una solitudine sconosciuta. Il pensiero involontario incurvava la sua spalla secondo la forma del braccio maschile.

      — Aspetteremo Vana e Aldo sotto la porta?

      Appariva una esedra rossa su un prato sparso di gelsi ove pascolavano cavalli bai. Dinanzi erano le mura della città fendute di feritoie.

      — Paolo, Paolo, — disse ella abbandonandosi perdutamente a quell'ansia ch'ella non dominava più — vi prego, fermiamoci a vedere la Reggia. Bisogna ch'io la veda. È la Reggia d'Isabella. Sarà ancóra aperta a quest'ora? Voglio, voglio entrare a qualunque costo. Vi prego! Bisogna che oggi io la veda. Fatemi questo dono!

       Il suo meraviglioso tormento e il suo furore di voluttà e la sua riluttanza e il suo orgoglio e la sua stanchezza e la sua sete ora a un tratto si dissolvevano e si confondevano in una visione allucinante dell'amore su la ruina. Ella guardò l'inchinato sole per fermarlo col suo vóto.

      — È la Reggia d'Isabella. Bisogna ch'io la veda.

      — Forse è tardi.

      — Non è tardi.

      — Son passate le sei.

      — Il giorno dura fino alle nove, oggi.

      — Il custode non ci aprirà.

      — Bisogna che apra. Voglio.

      — Proviamo.

      — Sono certa. Voglio.

      La macchina s'arrestò alla porta. I doganieri s'appressarono. Nel rombo assordante, ella chinò verso di loro la sua faccia che ardeva tra le due ali come illuminata dall'ispirazione. Anelava.

      — Dov'è la Reggia?

      Un di loro attonito indicò la via. Taciturna e quasi deserta era la città distesa nella sua palude e nella sua tristezza. Le memorie la empivano d'un silenzio che le rondini laceravano con le strida e traevano a lembi nei loro piccoli artigli pel cielo argentino.

       — E Vana? E Aldo?

      — Certo, giunti alla porta, domanderanno se

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