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con due occhi sporgenti arrossati e gonfiati dall'insonnia o dalla polvere o dalle lacrime. Altri, ben raso, rotondo, rubicondo sorrideva a sé medesimo, tenendo i vasti piedi sul regolo, sicuro di portare il suo adipe fino alle stelle. Altri, emaciato e illuminato come gli asceti, pareva sedesse dinanzi al suo telaio ideale e continuasse a tessere il suo sogno senza fine. Altri, testardo e cupo, covava il suo furore contro il carcame inerte che aveva deluso una fatica decenne; e sembrava inchiodato per sempre nel suo sedile e nel suo proposito: «Tu non ti moverai, né io mi moverò». Altri era pallido e dolce come il ferito su la barella, scotendo a quando a quando il capo scoraggiato. Altri dalle arterie gonfie del collo taurino eruttava bestemmie tonanti a riempiere le pause del motore affievolito. Di tettoia in tettoia il tragico e il buffonesco si avvicendevano, come nelle corsie dei manicomii. L'ombra monòcola di Zoroastro da Peretola si chinava a commiserare con l'occhio di ciclope la pedonaglia starnazzante. Un beffatore invisibile, con un crudele strascico di voce, gittava di tratto in tratto il richiamo fatale: «Icaro! Icaro!» E allora lo schiamazzo della folla impaziente si mutava in uno scroscio d'inestinguibile riso.

      — Eppure — disse Giulio Cambiaso — questi Icarotti con troppe ali, che son qui per tenere i piedi a pollaio, mi piacciono assai più di quei mercenarii insaccati nei braconi alla lanzichenecca e camuffati con la cervelliera di cuoio, che accendono a ogni momento la sigaretta della temerità.

      Erano costoro i pratici del volàno, vincitori di corse in circùito, che consideravano il nuovo apparecchio come un veicolo alleggerito su tre sole rotelle elastiche e munito di semplice o doppia velatura intelaiata. In servizio dei fabbricanti d'uccelli artificiali, mettevano a guadagno le ossa e l'ardire, avendo fiutato il favor popolare pel nuovo gioco circense. Essi avevano già la loro divisa, la loro maniera, il loro gergo, le loro millanterie, le loro ciurmerie, le loro cabale.

       — Che guardi, Paolo?

      — Nulla.

      — Ci sono oggi su le tribune più penne pennacchi piume e piumoline che nel côm di Sandaleh o nella garzaia di Malalbergo. Comincia l'emigrazione verso il recinto, con licenza dei commissarii.

      — Il vento gira. S'abbassa il quadrato rosso e monta il nero: da sette a dieci metri. È issata la fiamma bianca.

      — Peccato che non abbiamo pensato a portar qui i nostri aironi protettori nelle gabbie di papiro da sospendere alle travi delle tettoie, per divertire dame e damigelle!

      — Diventi misogino?

      — Scherzo. Tuttavia c'è qualcosa di sinistro in certe sfingi che covano l'enigma tra le latte di benzina e le brande dei meccanici.

      — Sei più severo di Dedalo, che fu tanto compiacente verso Pasife.

      — Saggezza del sottile Ateniese! Giusta assegnazione d'ufficio! Costruendole la vacca infame, assegnò al toro quello d'intrattenerla. Ed egli, che praticava il volo basso come Henry Farman, andò ad atterrarsi in Sicilia, immune dalla panna figliale. Ammirabile esempio!

      — Vuoi ammonirmi?

      — Né anche per sogno. Hai guardato l'amica di Roger Nède? È una Cretese escita or ora dal simulacro vaccino ed entrata in una spoglia serpentina di «chez Callot».

      Era spaventosa; quasi sempre in fondo alla tettoia rude come nell'ombra d'un'alcova molle, visibile a traverso i fili d'acciaio, a traverso il polverìo che il vento dell'elica sollevava dal suolo rossastro, fra gli scoppii del motore in moto, fra le tuniche azzurre dei meccanici lucenti di sudore e di olio, inguainata nella stretta gonna come nella pelle della sua pelle, tutta distinta di particolarità squisite che squisitamente vivevano su lei come le sue ciglia, come le sue unghie, come la pelurie della sua nuca, come i lobi delle sue orecchie; liscia odorante e lubrica, con una bocca dipinta ch'era dipinta dal rosso del minio e forse di queste parole: «Dal cuore premuto dell'onta — spremetti la dolcezza del frutto — ch'era mortifero, onde non resta — se non la semenza di morte». Simili a lei altre creature apparivano là dove gli uomini s'apprestavano a giocare il gioco che poteva essere di fuoco e di sangue, vive e artificiali, lascive e sfuggenti, ora prossime come minacce, ora lontane come larve, simili a quella e simili tra loro nelle maschere nelle attitudini nelle fogge, suscitando con le lor simiglianze il sogno dell'enorme Vizio invisibile dalle cento visibili teste; ché le loro teste coperte dai larghi cappelli sorgevano su i lunghi fòderi dei corpi come su i lunghi colli della bestia di Lerna.

      Ma altre tettoie erano cangiate in ginecei dalle donne legittime, dalle floride figliuolanze, perfino dalle nutrici e dai pedagoghi. La famiglia palpitante vigilava il portentoso uccello concepito nel suo seno, asciugava le care gocciole della fronte geniale, si turava con le molte mani i molti orecchi allo strepito prenunziatore del prodigio, contava nel grembo l'oro imaginario del premio giusto, spingeva lo strumento della nova felicità verso il campo dell'aratura, soffiava e risoffiava le sue speranze nella viadana o nell'olona insensibile, poi respingeva lo stupendo aratro nel ricovero, quivi deplorava l'inclemenza del cielo e l'incostanza degli stantuffi.

      — Il vento gira. Quarta a ponente — disse Paolo Tarsis. — Soffia per colpi; vuole attacco per attacco. Io parto. E tu?

      Egli aveva riconosciuto di lontano il passo ondeggiante d'Isabella Inghirami. E lo stringeva un'ansietà simile al terrore. E, senza indagare la causa, voleva ancóra evitare come aveva fino allora evitato l'incontro della sua amica col suo amico.

      — E tu, Giulio?

      — Sùbito dopo di te.

      — Hai mutata l'elica?

       — L'ho mutata.

      — Sei pronto?

      — Pronto.

      — A rivederci in alto.

      — Spero che ti raggiungerò.

      Si strinsero la mano; e stavano per separarsi, andando ciascuno al suo cómpito: che era di superare il compagno, tutti gli altri e sé stesso. Ma Paolo Tarsis seguì l'emulo per qualche passo; lo salutò ancora una volta.

      Sembrava ch'egli volesse riempirsi il cuore di quel gran sentimento virile, inebriarsi di quella pienezza, sentire il pregio di quel dono a lui fatto dalla sorte robusta. Quasi tutte le amicizie umane sono fondate su la ragion leonina; ove l'uno prende più di quel che dona, l'altro fa atto d'offerta e d'abnegazione, si sottomette e si umilia, imita e consente, è tiranneggiato e protetto. Ma la loro amicizia era fatta di due stature eguali, di due pari potenze, di due libertà e di due fedeltà indomabili. Ciascuno misurava dal valore dell'altro il suo valore, riconosceva dalla tempra dell'altro la sua tempra, sapeva che il più difficile posto poteva esser tenuto a vicenda e che il più crudo avversario non poteva prevalere nella sostituzione. Quante volte l'uno aveva vegliato sul sonno dell'altro, per turno, in notti d'insidie, con le armi al fianco! E nulla più dolce e più grave di quella veglia, in cui a volta a volta era parso dalle grandi costellazioni australi creato pel dormente un destino più profondo.

      Ora nell'occhio del compagno era una domanda assidua che non scendeva alle labbra: «In quali mani sei per rimettere la tua vita? Da quali unghie lucenti lascerai disfare la tua durezza?»

      Egli l'aveva seguito, s'era indugiato per dare a quella domanda la sua risposta: «Ti ricordi, tu di quel bùttero che per bravata, il giorno della merca, nella tenuta dei Cesarini, da solo legava insieme le quattro zampe al giovenco e lo sollevava da terra? Così io faccio della bestia oscura che cresceva dentro di me e minacciava di soverchiarmi. La lego e la sollevo, e poi la marchio per la sua servitù. E mi scrollo, e li do la mano, e ce ne andiamo per la nostra conquista liberi». Ma il compagno, oppresso da una improvvisa tristezza, non aveva voltato il capo.

      Giulio Cambiaso a traverso la cortina udiva la voce d'Isabella Inghirami, ricca di toni di dissonanze di passaggi di sbalzi di spezzature come un canto incantevole, ora bassa ora soprana, ora infantile, quasi leziosa, ora maschia, quasi violenta, a volta a volta squillante e roca, ineguale e ambigua come certe voci rotte dalla conturbazione della pubertà: qualcosa di straordinariamente vivo ed insolito, qualcosa d'inverosimile, che lo attirava e lo irritava a un tempo. Egli stesso allora prese l'elica per le due pale e impresse il moto. Il rombo fece tremare le tavole, agitò la cortina, sollevò la polvere. Tra i lembi palpitanti

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