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Tancredi, secondo il convenuto, li toglie di prigione, e questi seguiti da molti s'incamminano alle stanze del Re. Sedeva tranquillamente Guglielmo ragionando con Enrico Aristippo: alla vista di Simone e di Tancredi, sdegnato perchè senza suo ordine gli comparissero innanzi, prese a minacciare, poi a fuggire; ma presto raggiunto con le spade nude dal Conte di Lesina e da Roberto Bovense, uomini feroci, questi dissero di levargli la vita, e lo facevano; ma Riccardo Mandra gli rattenne, e provvide alla salvezza del Re trasportandolo prontamente in prigione. Allora, secondo l'ordine della congiura, cavato fuori del palazzo Rogiero, primogenito di Guglielmo, lo fecero cavalcare per la città, e lo salutarono Re. In questa Gualtieri Arcidiacono di Ceffalù andava esponendo i delitti di Guglielmo, e confortava con la speranza delle virtù di Rogiero: il popolo applaudiva! Ma il Bonello non si vedeva. Senza un conveniente sussidio di armati non si ricava frutto dalle congiure: partiva Tancredi ad affrettarlo. Ormai erano trapassati tre giorni, nè il Bonello nè Tancredi comparivano. Romualdo Arcivescovo di Salerno, Roberto Arcivescovo di Messina, l'eletto di Siracusa, e il Vescovo di Mezzara, sia perchè in questa mutazione avessero perduto, sia che in una nuova sperassero acquistare, si dettero a persuadere ai Palermitani sprigionassero il Re: lo sprigionarono. I congiurati, dalla velocità dei moti smarriti e confusi, abbandonano Palermo. Guglielmo, trascorrendo armato le vie della città, vide farglisi incontro Rogiero, amabile ed avvenente giovanetto, sua gioia nel tempo passato, ora tutto giubbilante per la ricuperata libertà del padre; preso da profondo dispetto non ravvisa in lui il figlio, ma il nemico che volle strappargli la corona e la vita: lo percote nel petto: il giovane spira l'anima senza mandare un gemito: il popolo applaudiva! Guglielmo, avvedutosi del misfatto, deposta la veste reale, mettendo dolorosi guai, come se avesse perduto l'intelletto, schiuse le porte del palazzo, chiunque passava traeva dentro, e amaramente piangendo gli raccontava la sua disavventura. Tra tanto dolore domestico fu posta in oblio ogni pubblica vicenda. Il Bonello, un'altra volta perdonato, congiurava un'altra volta. Richiesto dal Re di una spiegazione intorno alla sua condotta, rispondeva superbo. Il Re si armava; vinti i ribelli, parte uccideva, parte bandiva: il Bonello rinchiuso in oscurissima prigione, poichè ebbe gli occhi abbacinati e i nervi sopra i talloni recisi, piangendo il duro destino, di vilissima morte terminava la vita. I rimanenti giorni del Re Guglielmo furono uno alternare di ribellioni, di ferro e di veleno. Le dure estorsioni, con le quali angustiava i sudditi, appaiono più spaventose che credibili. La sua crudeltà fu tale, che non si sbramasse neppure sopra i nemici fatti cadaveri; a brani a brani, su per la pubblica piazza, a vista di popolo, gli facea mettere dai morsi di affamati mastini: e il popolo applaudiva!—Nel 1166 la morte pose fine alla sua esistenza, che, e per lui, e per gli altri, era stata flagello.

      Molti dei fatti siciliani fin qui raccontati succedevano contemporanei a quelli di Lombardia che ora siamo per raccontare; ma a noi piacque separarneli, sì perchè possono stare divisi, sì perchè ordinati disgiuntamente fra loro rappresentano un quadro molto meglio importante. Torniamo adesso a parlare di Federigo. Andava questi forte cruccioso contro Papa Adriano per la pace conclusa con Guglielmo I; era il Papa adirato contro Federigo per l'arresto dell'Arcivescovo di London. Questi semi di mala intelligenza proruppero in manifesta discordia, allorchè Adriano mandategli sue lettere, dopo averlo gravemente ammonito, scriveva: «rammentasse bene, ch'egli teneva lo impero come beneficio della Chiesa;» la qual parola significava feudo. A questo motivo, sebbene di per sè stesso sufficiente, si aggiunse la notizia che Adriano aveva fatto dipingere sopra le pareti del palazzo di Laterano Lotario II genuflesso innanzi Alessandro II, tenendo le mani sopra quelle del Pontefice con sotto l'iscrizione:

      _«Rex venit ante fores—jurans prius urbis honores, Post homo fit Papæ—sumit quo dante coronam:»_¹

      ¹ Giunge il Re innanzi le porte giurando dapprima gli onori di Roma, quindi diviene vassallo del Papa per concessione del quale assume la corona.

      la qual cosa stava a dimostrare vassallaggio. Federigo, insofferente di tante ingiurie, cala pel Friuli un'altra volta in Italia, passa su quel di Brescia, dove pubblica una disciplina per l'esercito,¹ e cita i Milanesi. Comparsi, gl'interroga, perchè abbiano riposta Tortona, sottomessa Lomellina, i ponti su l'Adda e sul Ticino rifabbricati. I Milanesi, non potendo con le armi, si difendevano con le parole; non si ascoltavano, e si ponevano al bando dell'Impero. Federigo avanzandosi è respinto al ponte di Cassano. Ladislao Re di Boemia valica l'Adda a Cornaliano; i Milanesi ritirandosi abbandonano il ponte; i Tedeschi incalzando superano i castelli di Trezzo e Melagnano, e pervengono sul contado di Lodi. Qui fu che Eberto da Butena, stimando con un súbito assalto superare Milano, partiva con mille cavalieri alla volta di questa città.—Non uno di loro sopravvisse a recare la novella della strage degli altri. Federigo muove con tutto l'esercito contro Milano; considerando difficile l'assedio, stabilisce il blocco. Divide in sette corpi l'esercito, e li pone a guardia delle sette porte della città. I Milanesi sortono e rompono il corpo di Corrado Conte Palatino; ma sovvenuto a tempo da Ladislao di Boemia gli ributta con perdita. Invano con eroico valore quaranta Milanesi contro esercito di centomila uomini difesero un arco antico posto in mezzo del campo; invano tentarono i cittadini nuove sortite e alcune ne trassero ad avventuroso fine. Milano è costretto a piegare. Guido Conte di Biandrate, mediatore per la pace, conclude il 7 settembre 1158 un trattato nel quale si conveniva, che i Milanesi cedessero le Regalie; novemila marchi di argento, e trecento ostaggi consegnassero: Federigo all'incontro la facoltà di governarsi a modo loro concedeva, del solo giuramento di fedeltà si contentava. Ciò fatto, fu nuovamente convocata per San Martino la Dieta a Roncaglia. V'intervenivano Bulgaro e Martino scolari d'Irnerio, reputatissimi giureconsulti invitati da Federigo. Disputarono se l'Imperatore fosse padrone del mondo. Negò Bulgaro, affermò Martino. Si racconta che l'orazione di Martino piacesse tanto a Federigo, che sceso da cavallo glielo offrisse in dono, per lo che Bulgaro con un bisticcio latino dicesse—Amisi equum, propter æquum (perdei il cavallo per difendere il giusto). Bartolo, quell'aquila dei giureconsulti antichi e moderni, giunse nei tempi posteriori a qualificare eretico chiunque si fosse avvisato sostenere diversa sentenza. La qual cosa sta a dimostrare, nel dizionario dei legisti eresia suonare generosità: tanto è vero che ogni arte ha i suoi termini proprii, o come oggi diciamo tecnici! Conseguenza di questa Dieta fu, che Federigo rivendicasse le Regalie,² e si attribuisse il diritto di mandare Vicarii nelle città lombarde per governarle a piacer suo. Malgrado i patti poco tempo innanzi conclusi con Milano, non volle eccettuarla dalla decisione della Dieta; mandava un Vicario a reggerla; questi tutto rotto di battiture gli tornava in breve, cacciato a vituperio dalla città. Federigo, convocata una Dieta ad Antimaco, mette i Milanesi al bando dell'Impero. I Milanesi si uniscono ai Cremaschi, ed apparecchiano le difese. L'Imperatore assedia Crema. Diremo noi la nefanda strage commessa da Federigo di quanti prigioni gli venivano in mano? Diremo come facesse appendere vivi moltissimi ostaggi cremaschi intorno ad una torre per muoverla sicura contro la città, e come i padri di cotesti infelici, fermi di salvare la patria, urlando disperatamente, lanciassero sassi ed armi, per respingerla con la morte della propria prole? La torre fu bene costretta a indietreggiare, ma lurida di sparse cervella e di sangue,—ma maladetta per generosi parricidii…. Diremo come tanti sforzi tornassero vani, e come la città fosse tradita, arsa, distrutta? No, esponiamo, se non più glorioso, meno lagrimevole fatto alle armi italiane. Correva il 9 agosto 1160, allorchè Federigo sapendo che i Milanesi si erano messi in campagna, accorse a guerreggiarli con Novaresi, Pavesi, Comaschi ed altri infiniti. La fortuna gli fu di tanto cortese che gli venne fatto di circondarli: ormai pareva non potessero sfuggire l'universale esterminio. I Milanesi, nulla per questo caso sbigottiti, divise in due le milizie, attendono battaglia. Federigo comincia un furiosissimo assalto; le masnade romana e orientale, duramente percosse, piegano e fuggono; egli le incalza, giunge al Carroccio, ne uccide di propria mano i bovi, e rapisce il gonfalone. Intanto per altra parte la seconda ala milanese, vinti i nemici, tornavasi al campo. Udita la nuova del Carroccio, tutta baldanzosa per la fresca vittoria, si precipita sul vincente Federigo; questi lunga pezza tien fermo; alfine, sopraffatto da irresistibile impeto, si volge in vergognosa fuga, lasciando arme e prigioni.

      ¹ La disciplina dell'esercito detta la Pace del Principe è divisa in ventiquattro articoli; si legge in Radevico Frisingen, che séguita il racconto di Ottone Frisingen. Fra le altre disposizioni è notabile la quarta nella quale si ordina: Che un soldato trovando vino possa beverselo liberamente, ma gli è proibito di spezzare il vaso.

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