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di quelle che una volta presa una decisione, difficilmente cambiano idea. Il

      bargello lo trovava esasperante.

      "Io sono un uomo! E ho necessità che mia moglie non mi può negare!".

      Jimeno si diresse in cucina sentendo i passi della sua consorte dietro di lui.

      Sul tavolo c'era una leccarda mezza piena, ma non c'era nessuno dei suoi figli. C'era anche del fuoco nella stufa. Debole. Prese un paio di ceppi e li buttò dentro con furia.

      Arlena si avvicinò a suo marito, non avrebbe lasciato che Jimeno avesse l'ultima parola.

      "Oltre che moglie sono anche madre, ed è mio dovere proteggere i miei figli che sono anche i tuoi" disse mostrando il rigonfiamento costituito dal figlio non ancora nato, e guardò suo marito negli occhi. "Bisogna svuotare l'otre prima di riempirlo di nuovo" lo rimproverò. "Non insistere, dovrai aspettare che partorisca".

      "Cosa che avresti già dovuto fare" le rimproverò Jimeno. "Quel bambino è lì da troppo tempo".

      Sua moglie aggrottò la fronte e lo indicò con il dito.

      "Ti sbagli…" Arlena contò con le dita mentre elencava i mesi uno dopo l'altro. "Novembre, dicembre… non nascerà prima di gennaio".

      "Sarà meglio che nasca questo mese!" le ordinò Jimeno, come se dipendesse da lei. "Prima della fine dell'anno. Lo sanno tutti che i figli più forti nascono prima dei nove mesi".

      "Mah" disse Arlena sdegnosamente, "nessuno crede a queste cose, lo dicono solo gli ignoranti. E poi ne so più io di te, quanto a partorire".

      "Sì, partorire femmine; di partorire maschi te ne intendi meno, a quanto pare. Tre figlie femmine mi hai fatto da quando hai partorito l'ultimo maschio. È tempo che tu mi dia un altro figlio".

      Arlena guardò suo marito negli occhi, fiera.

      "Non si può intervenire su ciò che Dio dispone al momento del

      concepimento. Nascerà un maschio quando il Signore lo vorrà. E se sei così preoccupato per i tuoi figli maschi, dovresti averne maggior cura. Ciò che rende forte un fanciullo è sentirsi protetto fino al momento in cui diventa uomo" osservò. "Qualcosa che non ti riesce poi tanto bene".

      Il viso di Jimeno divenne paonazzo dalla rabbia. Come osava Arlena accusarlo di quanto era successo la scorsa notte? Quelle cose accadevano quando avevi a che fare con ladri e disertori. Succedevano e basta. Non era colpa sua.

      "Al ragazzo hanno conficcato una lancia nel culo, e allora? È un posto dove non c'è niente di importante" replicò offeso. "Presto starà bene" affermò, "e dovrà ringraziare suo padre che ha ammazzato quel maledetto".

      "Eppure ti dico e ti ripeto che non avresti dovuto portare Alfonso con te sulla montagna in piena notte" lo accusò Arlena. "Un uomo più assennato l'avrebbe capito. Il poveretto è a letto, costretto a dormire a pancia in giù perché non può appoggiarsi sulla ferita. Gli fa male".

      "E gli farà ancora più male quando si sarà cicatrizzata" dichiarò Jimeno, ben sapendo che far guarire le ferite era una parte importante della vita di qualunque uomo. Essere consapevole del fatto che gli errori provocano dolore. Se invece di rotolare avesse alzato la spada non sarebbe stato ferito. "Il ragazzo ha già sedici anni. Se gli insegno a combattere con la spada è perché presto ne avrà bisogno. Il regno deve espandersi a sud e alla fine dell'inverno il nuovo re convocherà signori e cavalieri". Arlena cercò di intervenire ma Jimeno alzò una mano per fermarla. "So cosa stai per dire: che se il re viene soprannominato 'il Monaco' non sarà poi così ansioso di andare in guerra. Ma io ti dico, donna, che un re deve essere guerriero, che lo voglia o no; e deve sapere che, se non attacca, verrà attaccato. Avrà bisogno di giovani come il nostro Alfonso per farlo e io non permetterò che venga chiamato alle armi senza sapere come si fa ad impugnarle".

      Arlena fece segno di no con la testa. I suoi occhi castani erano fissi sul marito.

      "Non era quello che volevo dire" replicò. "Dico solo che sbagli a pensare che don Yéquera andrà in guerra con il nuovo re. Quel vecchio è malato, presto perderà di nuovo la ragione e nominerà erede il suo cavallo"

      sostenne portandosi un dito alla tempia. In quel momento i suoi figli entrarono in cucina. La piccola Juana era tra le braccia di Sancha.

      Mancava solo Alfonso. "Ma non stavamo parlando di adempiere ai miei doveri coniugali?"

      Jimeno aggrottò la fronte alla vista del sorriso birichino della moglie. I suoi occhi si spostarono da quel sorriso ai suoi figli, e poi di nuovo al sorriso.

      Maledizione, donna, pensò il bargello. Decise che non era il caso di continuare a discutere.

      "Meglio non forzare la situazione" mormorò, "magari una delle prossime notti, con delicatezza".

      Arlena annuì e fece segno ai suoi figli di sedersi intorno al tavolo. Sancha, la figlia maggiore della coppia, aiutava sua madre ad apparecchiare per la colazione mentre il giovane Ramiro aiutava il padre con il fuoco.

      "Come sta tuo fratello?" gli chiese Jimeno. "Ha trascorso bene la notte?"

      "Lui non so" disse Ramiro stropicciandosi gli occhi, "ma io non sono riuscito a dormire, tanto si lamenta".

      Le fiamme crepitavano nel braciere che proteggeva la famiglia dal freddo esterno. In casa del bargello il fuoco era sempre acceso; la spesa per il combustibile – legna, perché Jimeno la preferiva al carbone – non era un problema, grazie alle rendite che otteneva sia dalla coltivazione di alcuni dei suoi terreni, tra i più vasti in paese, sia per la sua carica di cavaliere e bargello. Ecco perché non si preoccupò del fatto che Ramiro avesse aggiunto troppa legna nel camino.

      "Tuo fratello ieri è stato molto coraggioso" disse, "non dimenticarlo e fammi il favore di portargli qualcosa per colazione".

      Il bargello e suo figlio si sedettero a tavola e mangiarono. Jimeno spalmò del burro su pane bianco appena sfornato e prese dal tavolo una delle

      mele. Ramiro gli passò un coltello e gli chiese:

      "Posso venire alla taverna, dopo?"

      Il padre guardò il figlio. Il ragazzo voleva prendere parte all'assemblea dei villici. Il bargello aveva convocato tutti gli uomini del villaggio per decidere come fare fronte al problema dei briganti, che Jimeno era convinto non fosse ancora risolto. Il bargello perseverava nel suo tentativo di convincere chiunque fosse disposto ad ascoltarlo a farsi addestrare all'uso delle armi, benché non fosse ancora sicuro che si trattasse della decisione migliore.

      Com'era ovvio, Ramiro voleva partecipare.

      Decise di cambiare argomento.

      "Non dimenticare di esercitarti con la spada quando me ne sarò andato.

      Alfonso è a letto, e dovrai essere tu ad occuparti della famiglia".

      Sei erano i figli che aveva avuto il bargello da sua moglie: Alfonso, Sancha, Ramiro, Teresa, Jimena e Juana, di appena un anno. Tutti vivevano sotto il suo tetto. La più grande era già in età da marito e i due maschi pronti a mettersi alla prova in combattimento, anche se non erano ancora stati in battaglia.

      Alfonso sì.

      Jimeno era consapevole dei pericoli della guerra, lui era veterano di molte guerre. I colpi di scure e di spada potevano strappare via a un uomo parte di quello che aveva ricevuto alla nascita, e le ferite da freccia non guarivano mai completamente. Ma inoltre sapeva che non c'erano molte possibilità di prosperare in un minuscolo villaggio come Lacorvilla, se non si rischiava la vita al servizio del re. E il suo posto era in battaglia, non in cerca di fuorilegge e bracconieri.

      Il bargello pensò ai suoi due figli e si chiese se la guerra ne avrebbe fatto uomini di valore, storpi o cadaveri.

      Finì di fare colazione e si alzò da tavola. Diede un bacio a sua moglie e uscì dalla cucina. Ramiro lo seguì. Jimeno cercava i suoi stivali buoni.

      "Allora, posso venire con voi?"

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