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mettendo a sua disposizione. "Mia sorella potrebbe darvi una mano" e indicò Jimena, che si trovava qualche passo indietro.

      A Marcela non sfuggì lo sguardo breve ma intenso che la sorella scoccò al bargello.

      "Un bel pezzo di carne alla brace" suggerì Fidel. "È da una settimana che non mangio carne alla brace. Con le cipolle e una bella innaffiata d'olio".

      La donna non apprezzò che le venisse detto cosa doveva cucinare né quando. Ma alla vista di tutta la gente che era venuta al castello quella sera immaginò che la carne alla brace sarebbe stata molto gradita ai suoi vicini affamati. E diversamente da molti di loro, i forzieri di don Yéquera potevano permetterselo a cuor leggero.

      "Vedrò cosa posso fare".

      Il bargello batté le mani compiaciuto.

      "Bene, allora ceneremo quanto stabilito. E un'altra cosa" aggiunse.

      "Abbiamo con noi cavalli e asini, e anche un mulo. Passeranno la notte nella stalla. Chiama lo stalliere che se ne occupi".

      "Vicente non è più con noi" spiegò la donna. "Il ragazzo se n'è andato a servizio da un altro padrone. Forse ad Aratorés o Borau, non ricordo. Non abbiamo ancora preso un nuovo stalliere".

      Jimeno schioccò la lingua.

      "Perbacco… strano che Vicente se ne sia andato, dopo tanti anni…" si

      lamentò. Poi si passò una mano sul mento rasato e volse lo sguardo verso il portone del castello. "C'è qualcuno lì fuori… magari se ne intende di bestie, lasciamo che se ne occupi lui".

      Marcela sapeva bene a chi si riferisse.

      Maledetto.

      Jimeno guardò da un'altra parte, fingendo di non accorgersi della rabbia della donna. Legò le redini a un anello e andò in sala da pranzo, seguito da quasi tutti gli altri. Compreso Fidel, che avrebbe dovuto essere di guardia.

      La serva imprecò tra i denti ma lasciò perdere la guardia per occuparsi di suo figlio.

      "Io comincio a sbucciare le cipolle" disse Jimena, "fate pure con vostro comodo".

      La donna accettò, grata. Attraversò il portone e subito notò il vento ghiacciato. Vicino al carro vide suo figlio con la testa che spuntava timidamente tra gli animali. Gli asini che tiravano il carretto erano tranquilli, gradivano la mano magra che accarezzava le loro schiene ruvide.

      Sancho il Nero alzò la testa.

      "I miei rispetti, madre".

      Marcela abbracciò stretto il suo unico figlio, circondandogli il collo con le braccia. Sentendo il suo corpo. Tutto ossa. Coperto di un sottile strato di cuoio che non poteva neanche chiamarsi giubba. E sotto, neanche un po'

      di carne. Lo tenne abbracciato a lungo e poi appoggiò le mani su quelle di Sancho. Erano prive del minimo calore umano.

      "Fa freddo fuori, figlio mio. Vieni dentro" lo pregò. Ma suo figlio non sembrava d'accordo. "A nessuno darà fastidio che tu entri".

      "A Jimeno sì. E non voglio che accusino don Yéquera di tenermi sotto il suo tetto. Mi hanno detto che sta morendo, non voglio essergli d'impiccio proprio adesso. Non entrerò in casa sua".

      La donna sospirò.

      "Sono ormai quattro anni che sta morendo ma è ancora tra noi" disse prendendo le mani di suo figlio con fermezza. Anche se non credo che il mio povero signore resisterà ancora a lungo. "È stato Jimeno a impedirti di entrare?" Non fu necessario che Sancho confermasse. "Che sia maledetto quell'uomo e la sua anima nera. È l'unico in tutto il regno a ricordare quello che successe con tuo padre, e non c'è posto per il perdono nel suo cuore di ghiaccio".

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