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viaggiare come un re. Godersi un viaggio che non gli costava il minimo sforzo. Jimeno sapeva che era un uomo indebolito dalla fame, e ammetteva che aveva una grande volontà di vivere e grande abilità nell'affrontare le avversità della vita. Ma la cosa non sarebbe durata a lungo.

      Non appena si fosse insediato il nuovo signore, il vecchio don Yéquera non aveva più molto da vivere, avrebbe convinto il nuovo arrivato ad esiliare Sancho. Quando fosse andato via non sarebbe più stato una vergogna per il villaggio. Non c'era posto per i ladri nel paese di Jimeno.

      Tutti sappiamo che è un ladro, le piccole cose non spariscono da sole e anche se muore di fame non si decide mai a morire. Bisogna scacciarlo appena ce ne sarà l'occasione, decise. Ma la cosa migliore sarebbe che morisse una buona volta. Così non avrei problemi con la gente del villaggio. Me l'ha detto Bermudo che in paese si mormora che abbiamo rubato le sue terre. Non bisogna continuare a buttare legna sul fuoco.

      Quello che si prospettava era un inverno di carestia, e nessuno pensava che il Nero potesse superarlo. Non era malato, ma presto lo sarebbe stato.

      Chiunque si ammala se non mangia abbastanza, e Jimeno sperava che il carbonaio non fosse un'eccezione.

      "Perché sei venuta, zia?" chiese Ramiro.

      La domanda di suo figlio riscosse Jimeno dai suoi pensieri.

      "Per assicurarmi che facciate le cose come si deve" rispose Jimena.

      "La guerra non è roba da donne" precisò Jimeno.

      Sua sorella alzò un sopracciglio.

      "Chi ha parlato di guerra? Vedi perché non si può lasciarvi soli? Stamane parlavi di una banda di briganti e al pomeriggio li hai già trasformati in un esercito" argomentò con un grande sorriso. "Vista la situazione, è meglio che qualcuno vi tenga d'occhio".

      "Pochi o tanti, quando gli uomini combattono è sempre come se fossero in guerra. Non è roba da donne, ma da uomini. Da guerrieri. La spada vuole affondare nella carne. Ci sono sempre dei morti e il sangue inonda il terreno" raccontò Jimeno descrivendo immaginari colpi di spada. "E quelli che non hanno avuto il buonsenso di prepararsi sono i primi a cadere sulla fredda terra. Sarà meglio per voi che, quando sarà tutto finito, siamo noi i vincitori".

      Una promessa funesta si nascondeva nel modo di parlare del bargello, e il gruppo tacque.

      Uomini e cavalli scendevano lungo il sentiero che attraversava campi e macchie di boscaglia. Le montagne così generose di selvaggina quando la mira era favorevole sembravano inquietarsi al passaggio del vento tra gli alberi, e proprio tra quelle montagne gli albari potevano aver trovato rifugio, forse intenti ad osservare la piccola comitiva che viaggiava verso Yéquera.

      Jimeno temeva la possibilità di un'imboscata, ma il terreno era troppo aperto perché potessero prenderli alla sprovvista.

      "Anche noi possiamo aiutare" dichiarò Jimena interrompendo le elucubrazioni del bargello. "Come fecero le donne di Jaca".

      "Bah!"

      Dietro una curva apparve il castello di Yéquera. Il colore sabbioso delle pietre di cui erano fatti i muri spiccava sul verde umido dei terreni circostanti. Sembrava ancora più alto di quanto fosse in realtà perché era costruito sopra una collina.

       Una costruzione solida, malgrado sia sorvegliata da poche guardie.

      "Che cos'è questa storia delle donne di Jaca?" Ramiro era curioso.

      Jimeno smise di rimuginare e si girò verso suo figlio, infastidito.

      "Una leggenda. Tre o quattro secoli fa quelle donne lasciarono la loro città per combattere contro i maomettani".

      Cavalcavano a passo lento, a un ritmo che i loro compagni che viaggiavano a piedi potessero seguire. Ma Jimeno affrettò un po' il passo e superarono il carretto.

      "E com'è andata?" ripeté Ramiro.

      "Io non c'ero" sbuffò Jimeno.

      Jimena si chinò verso suo nipote.

      "Non è una storia che a tuo padre piaccia particolarmente..".

      "...Leggenda" la corresse il bargello.

      A quel punto Jimena si staccò da loro rallentando il ritmo, costringendo suo fratello e suo nipote a fare la stessa cosa. Poco dopo il carretto li superò di nuovo.

      "Leggenda o storia" continuò Jimena, "non è qualcosa che un uomo come Jimeno, prode bargello, abbia piacere di sentire. In realtà" aggiunse alzando la voce "è una bella storia".

      Jimena si schiarì la voce. Con forza. I vicini si strinsero intorno a Roccia per proteggersi dal freddo e aguzzarono l'orecchio per ascoltare.

      "Il Regno di Aragona, prima di essere Regno fu una Contea. Il suo fondatore fu García Íñiguez, il primo re di Sobrarbe, conquistatore di Pamplona e Aínsa. Questo re era stato nominato da un gruppo di suoi seguaci cristiani che avevano fatto voto di recuperare le terre che i saraceni avevano strappato ai loro antenati. Sostenuto da quelle fedeli truppe marciò verso le terre dell'ovest fino a raggiungere Álava. Jaca, benché vicina ai confini di questo nuovo regno, era ancora sotto il dominio dei mori.

      Tutto ciò era motivo di tristezza per i buoni cristiani, e un capitano di nome

      Aznar decise di riconquistare la città in nome del suo re. Era una scommessa audace, perché la città di Jaca era una fortezza inespugnabile.

      Tuttavia, le vittorie di García Íñiguez avevano fatto una strage tra le fila dei saraceni e quelli di Jaca, che non dovevano essere molto perspicaci, lasciarono che i loro uomini migliori partissero per la guerra contro il re di Sobrarbe. Bella trovata, non credete? Informato di questo fatto, Aznar mosse contro la città e riuscì a conquistarla dopo una dura lotta contro i suoi difensori. Riempì le sue strade di cristiani buoni e leali con le loro famiglie, diede loro il permesso di coltivare le terre limitrofe, costruì chiese dove prima erano i templi saraceni e riparò le mura. Correva l'anno 759.

      García Íñiguez ricompensò Aznar nominandolo governatore della nuova e magnifica città di Jaca.

      L'anno seguente, i mori che avevano lasciato Jaca per andare a combattere contro García Íñiguez fecero ritorno, insieme ad altri ottantamila guerrieri. Quell'enorme esercito era guidato da quattro dei più fieri condottieri che mai abbiano fatto parte dell'esercito saraceno. Quella massa sterminata di soldati si avvicinava a Jaca con l'intenzione di riconquistarla e di massacrare i suoi abitanti. La situazione era disperata e s'imponeva un atto di estremo coraggio. Non volendo che la sua città e i suoi abitanti subissero alcun danno, il governatore Aznar creò un esercito formato da tutti gli uomini di Jaca e andò incontro al nemico.

      La battaglia fu dura e cruenta; i difensori erano in inferiorità numerica rispetto ai saraceni e la disfatta sembrava inevitabile. Avendo perso molti dei suoi uomini, Aznar si raccomandò alla Madonna. E Lei ascoltò le sue preghiere. Ben presto un nuovo contingente di truppe comparve sul campo di battaglia. Erano abbigliati di un bianco candido ed erano avvolti da un'aura degna del Paradiso. Venivano da Jaca. "Che rinforzi possono averci mandato da Jaca?" si stupì Aznar. "Non è rimasto neanche un uomo, laggiù". Il governatore aveva ragione. Non c'era più neanche un uomo, in città.

      Le donne di Jaca, mandate dalla Vergine Maria, si scagliarono sui mori con furia e senza pietà. Uccisero moltissimi nemici al primo attacco e i loro abiti bianchi che non si macchiavano del sangue degli infedeli sparsero il panico

      tra i sopravvissuti. Ben presto tutti i nemici scagliarono a terra le loro armi e fuggirono dal campo di battaglia, lasciando sul terreno i cadaveri dei quattro condottieri. I cristiani tagliarono loro le teste e le inchiodarono alle porte di Jaca. Da allora rappresentano lo scudo della città".

      Al termine del racconto, gli abitanti del villaggio si scambiarono le loro impressioni. Ad alcuni sembrava che fosse tutta un'invenzione. Altri giuravano che era tutto vero. Quasi tutti sostenevano che fosse una bella storia per ammazzare il tempo in un viaggio come quello. Nel tempo

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