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prese con nuove esplorazioni.

      Le nostre emozioni erano contrastanti ma sapevamo che,

      sebbene il pericolo fosse imminente, eravamo esseri umani e

      dovevamo mangiare. Erano giorni di magra ma avevamo ancora

      delle riserve di carne secca perché quando l’altra me stessa

      era fuori dalle rovine, aveva cacciato e raccolto bacche.

      Ci ritirammo in un angolino a masticare quella parca mensa

      che ai miei occhi non poteva che essere prelibata. I nostri

      denti funzionarono come lame che tagliano tutto e la nostra

      pietanza scomparve in fretta. Ripulimmo la zona e continuammo

      il nostro pellegrinaggio sperando di non fare brutti incontri.

      Durante il viaggio avevamo ripreso a vedere immagini orrende

      disegnate, scritte che ci spingevano ad andare via, a

      scappare, ma dove potevamo scappare?

      Dove potevamo trovare un rifugio? Come potevamo uscire da

      quel dedalo?

      Proseguimmo e fortunatamente trovammo armi e proiettili;

      li prendemmo pensando che in futuro avrebbero potuto esserci

      utili.

      Rinvenimmo anche una sorta di accampamento distrutto.

      Sembrava fosse stato attaccato e che i cadaveri fossero stati

      trascinati via: si vedevano chiaramente le strisce di sangue

      provocate dal trascinamento dei corpi, tuttavia non trovammo

      nessuna delle vittime.

      Raccogliemmo tutte le armi possibili e anche il piccolo

      kit del pronto soccorso: non sapevamo cosa ci aspettava e per

      questo ci volevamo preparare. Se avessero voluto uccidere

      queste due donne sole, be’, avrebbero dovuto faticare.

      Eravamo armate e, sperando di aiutare quelli che erano

      stati attaccati, avanzammo seguendo le strisce di sangue.

      Tuttavia, presto iniziammo a temere il peggio per i poveri

      malcapitati: dovevano aver perso molto sangue e la loro fine o

      era già avvenuta oppure era molto vicina.

      Seguimmo le strisce di sangue lungo la grande stanza, poi

      passammo a un luogo più stretto e oscuro. Solo alcune fiaccole

      illuminavano la strada, ma noi avevamo già deciso il nostro

      percorso e ci facemmo forza l’una con l’altra.

      Dall’angusto corridoio si presentava un passaggio più

      ampio con soffitti altissimi che conteneva al centro un altro

      stanzone murato. Lì per lì non vedemmo l’entrata, e fu questa

      la nostra fortuna perché, sentendo il nostro odore, i mostri

      uscirono per cercarci senza sapere esattamente dove fossimo, e

      noi potemmo nasconderci subito lungo una roccia.

      Erano orrendi e sporchi, macchiati di sangue.

      Semplicemente agghiaccianti. Stavano litigando, lo capivo

      perché si lanciavano strani raggi e palle infuocate che

      percuotevano i loro corpi; se colpiti, si lamentavano con urla

      baritonali e terribili.

      Non erano urla comprensibili a noi, ma ipotizzavo avessero

      iniziato a litigare e farsi i dispetti probabilmente perché

      era troppo tempo che erano da soli e si annoiavano.

      La lotta continuava e iniziavano a non fiutare più l’aria,

      ma solo a litigare tra di loro sempre in modo più

      appassionato. Forse avevano perso interesse per noi.

      Si stavano facendo male l’uno con l’altro: era il momento

      di attaccare e di cercare eventuali sopravvissuti. Avremmo

      potuto ancora salvarli o tentare di farlo, pensavo speranzosa.

      Tuttavia non vi erano molte speranze, ma se fossero stati

      attaccati da poco, magari il kit di pronto soccorso avrebbe

      potuto aiutarci.

      Decidemmo quindi di prendere i mostri alle spalle e di

      sparare mirando alle loro ferite; di indebolirli, se non

      ucciderli.

      Immaginavo chiaramente il nostro impegno, il nostro

      avanzare silenzioso.

      Iniziammo a sparare un secondo prima che si accorgessero

      di noi. Le nostre pallottole, nonostante le loro dimensioni

      mastodontiche, erano dolorose. Gli scaricammo addosso tutto

      quello che potemmo, ma poi tutto finì male.

      Vidi la fine, la vidi negli occhi scuri della donna che

      era stata mortalmente ferita ed era esattamente uguale a me;

      potevo vedere con i suoi occhi e percepire la vita che la

      stava abbandonando lentamente. Tuttavia dovevo andarmene. Lei

      capì che dovevo scappare e nei suoi occhi vidi il perdono e la

      comprensione. La mia fuga era capita, giustificata.

      Nei giorni a venire avrei sognato e sentito tutto il

      dolore di quella creatura provenuta da molto lontano che

      giammai avrei rivisto, la mia stessa immagine proveniente da

      una dimensione diversa. Avrei sentito il gelido impatto

      generato dal vortice infuocato che mi risucchiava, avrei

      sentito il contatto con il freddo pavimento rudimentale, avrei

      guardato in alto sapendo che non c’era più speranza in questo

      mondo.

      Nonostante tutto i mostri erano ancora vivi e potevano

      farmi del male: dovevo lasciare da sola la mia compagna di

      avventure appena trovata.

      Per cercare di ucciderli lei si diede fuoco, facendo

      saltare in aria i proiettili che erano rimasti. Ciò creò un

      immenso dolore ai mostri che sembrarono urlare, gemere e

      ruggire di rabbia e frustrazione e dolore. Li avevo visti in

      ginocchio con la coda dell’occhio e dentro di me sperai di

      essermene liberata.

      Attraversai il largo passaggio e mi ritrovai nella stanza

      dove Dannazione e Vendetta torturavano i prigionieri e li

      sacrificavano a qualche divinità degli inferi.

      Diversi corpi erano stati scannati e impiccati al

      contrario, di modo che il sangue gocciolasse via e con essi la

      vita. Era raccapricciante e drammatico, la scena peggiore che

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