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vicino al lago nella vecchia

      casa di campagna. Quella casa di campagna era vicina, ma io

      ero curiosa e volevo oltrepassare la distesa di felci, in un

      atteggiamento di ricerca e perlustrazione tipico della prima

      pubertà. La mia giovinezza mi diceva infatti “esplora”, la mia

      saggezza “pensa”, il mio cuore “prova”. Andavo avanti seguendo

      la mia natura avventurosa… e anche in quel momento lo stavo

      facendo, come tipico del mio carattere.

      Scovai una scena del passato, una lotta feroce tra

      tirannosauri, e scappai. Prima della fuga, posso testimoniare

      di aver visto i denti aguzzi dei due animali e il loro

      atteggiamento che da sfida si trasformava in attacco vero e

      proprio. Con i loro corpi mastodontici e muscolosi si

      scontravano, distruggendo tutto ciò che travolgevano. Avevano

      abbattuto alberi e distrutto le mie amate felci, in una lotta

      tipica del periodo riproduttivo.

      Correndo, caddi su delle pietre che ruzzolavano le une

      sulle altre. Il rumore attirò i sensibilissimi bestioni, che

      si voltarono e iniziarono la caccia.

      Sentivano ogni odore e percepivano la paura, come molte

      fiere selvagge.

      Scappai disperata, il respiro che si faceva pesante. La

      milza pungeva, affaticata, ma non potevo permettermi di

      fermarmi: doveva esserci una via di uscita. E alcune volte

      essa è più spaventosa delle cose da cui stiamo scappando. La

      via di uscita era un oscuro vicolo che si prolungava in un

      cunicolo crepato e buio inserito in una cavità.

      Dovevo affrontare la claustrofobia.

      Con un ultimo colpo di reni mi ci infilai. Fuori, le

      gigantesche belve ruggivano livide di rabbia, poiché non

      vedevano più la loro preda.

      Strisciai per un sacco di tempo, l’aria stantia,

      puzzolente e odiosa da respirare. Temevo ragni e topi… avevo

      sempre odiato i ragni e i topi. Specialmente questi ultimi mi

      terrorizzavano: da piccola ero andata nel pollaio e avevo

      visto un enorme topo intento a rubare le uova a una gallina.

      Ma ero piccola, ora invece ero una donna ed era tempo di

      lottare per la vita.

      Lottare per sopravvivere o scappare se l’avversario era

      più grosso: questo era il meccanismo alla base della

      sopravvivenza umana. Lo era sempre stato, e io continuavo a

      usarlo, per me stessa, per la sopravvivenza della specie

      umana, per l’umanità tutta.

      L’umanità non era stata così al centro dei miei pensieri.

      Prima di tutte queste avventure ero stata una nerd; un tipo

      difficile, chiuso, sempre vestita di nero e parecchio

      depressa, con addirittura pensieri suicidi. Tuttavia ora era

      tempo di lottare e uscire dal tunnel.

      Strisciavo, mi graffiavo e cercavo di andare avanti.

      Quando sgusciai fuori era notte, una notte terrificante

      quasi senza luna, con un cielo nero e a tratti reso incombente

      e aggressivo dalle nuvole. Le nuvole avevano la forza di un

      ghepardo per le tinte che si avventuravano sui muscoli

      dell’animale con inquietanti sfumature rosse.

      E vidi tutto. Vidi un tirannosauro che vagava davanti a

      me, mentre lo osservavo nascosta in quella sorta di balcone

      naturale.

      Scesi da lì solo durante il giorno e mi sentii più forte,

      pronta a vedere altri mostri e a perlustrare per capire la

      vera natura delle cose: la mente era aperta a ogni

      eventualità, a vedere altre strane creature e a captare altri

      strani sogni.

      I sogni erano stati tutto per me, lo sfogo di tutti i miei

      desideri; erano la percezione delle cose addirittura prima che

      accadessero, la percezione del no alla mia richiesta di aiuto

      verso un amico amato che non mi aveva capito come essere

      umano.

      Avevo sognato questa negazione di aiuto, ma con la mia

      natura testarda e coraggiosa ero andata contro quello che

      avevo percepito, e avevo continuato. Avevo sbattuto la porta

      perché non avevo ascoltato la mia naturale e sensibile voce

      interiore. L’avvertivo fin dalla tenera infanzia, ma ne avevo

      preso coscienza da poco, solo da adesso che scappavo dai

      mostri o li combattevo.

      Presi a camminare per una valle che si inerpicava, foglie

      di quercia rossa ovunque. Era autunno, le foglie si staccavano

      dagli alberi, profumo di pioggia appena caduta, di muschio

      selvaggio.

      Vicino a me un ambiente ovattato, dove finalmente potevo

      accendere un fuoco per riscaldarmi. Fortunatamente nella sacca

      avevo ancora la mia riserva di carne essiccata; preparai il

      fuoco e mi misi comodamente a campeggiare. Poi mi coricai a

      pesare la notte.

      La notte fu lunga e sognai di viaggiare per i mari su

      goffi battelli.

      Al risveglio, la brina e poi gocce di rugiada. Doveva

      essere metà settembre e le foglie avevano creato uno strato di

      diversi centimetri dove i miei stivali sprofondavano.

      Erano stivali femminili, comodi, e avevano l’eleganza dei

      vecchi stivali da cowboy. Il loro pensiero attenuava le

      riflessioni sulla solitudine, la puntura fredda e profonda

      della nostalgia e i pensieri intimi e tristi. Era proprio

      questa intimità che sentivo nel profondo di quella strana

      foresta di quercia rossa, dove le foglie cadevano ed erano

      rosso sangue.

      Tuttavia mi sentivo seguita, spiata.

      Questa sensazione di essere spiata, la percezione che

      qualcosa di oscuro si stesse accalcando e stesse progettando

      alle mie spalle, l’avevo avuta anni dopo l’adolescenza, quando

      qualcuno

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