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      secondo coscienza.

      E decisi: avrei tentato di salvare la bambina. Potevo

      morire io, potevo essere fatta a pezzi ma dovevo superare la

      prova; dovevo cambiare ed essere più forte.

      La forza si impara anche cammin facendo e io volevo che

      fosse così per la mia vita, non volevo più scappare se non

      quando fosse stato strettamente necessario. Qualcosa in me

      stava cambiando e alla fine, forse, era giusto così. Era un

      desiderio di pace e giustizia che paradossalmente mi spingeva

      a lottare, un misto di bontà e dignità che è insito nei

      guerrieri buoni delle storie che mi raccontavano da piccola.

      Era la non accettazione del male, mai e senza nessun

      compromesso, perché di compromessi per troppa bontà ne avevo

      presi troppi ed ero ricorsa alla fuga, all’umiliazione e a un

      deprimente sentimento di bassa autostima. La depressione non

      la volevo più, volevo combatterla. Volevo salvare la bambina

      che ciondolava, perché in quel pendolo di incertezze vedevo me

      stessa, in bilico tra una decisione e l’altra, confusa e

      insicura.

      Dovevo agire istintivamente quando la bambina sarebbe

      arrivata a metà percorso. Avrei tentato di tagliare la corda,

      il problema era: con cosa?

      Avrei potuto provare con il temperino con cui tagliavo la

      carne secca oppure interi rami delle piante di bacca di cui

      andavo tanto ghiotta. Era un piccolo temperino ed era

      abbastanza malconcio… dovevo però agire in fretta ed essere

      precisa, perché avevo un altro mostro non lontano da me.

      Mi lanciai a testa bassa, pensando che poteva essere mia

      figlia e che avevo il dovere morale di salvarla, o almeno di

      provarci. Il coltello tagliò rapidamente la prima parte della

      corda poiché macilenta, ma poi si fermò.

      Più provavo e meno riuscivo a tagliare.

      Sentivo ridere alle mie spalle e provavo un gelo dentro di

      me, un brivido che mi percorreva la schiena facendomi tremare

      le braccia. I miei arti tremavano ma non la mia volontà, e

      capii che l’oscuro bambino era il bambino che mi rincorreva e

      che in quel momento si presentava davanti a me, gli occhi

      verdi e terribili.

      Aveva nascosto nella corda delle piccole spille.

      Furente iniziai a toglierle, a cercare di bilanciare la

      rotazione con il mio peso. Ero disperata, ma provai e

      riprovai, bucandomi le mani e imprecando per le punture.

      E la corda cedette. La piccola cadde a terra ma almeno

      potevo dire che il suo eterno dondolare era cessato.

      Finito di vedere quegli orrendi occhi verdi ero confusa,

      ma mi feci forza e iniziai a urlare contro il mostro, non

      avevo altro che la mia voce. Gli dissi, mostrando la piccola

      che giaceva al suolo: «Ecco cosa hai fatto, non mi resta più

      niente, NIENTE! Mi hai tolto tutto perché so che questa

      bambina sarebbe stata legata a me in un futuro. Adesso

      uccidimi se ti va… fai quello che vuoi, cosa vuoi ancora, il

      mio sangue?».

      Lo sfidavo come una pazza, ma lui era cambiato. Mi strinse

      la mano e mi disse che avevo fatto la cosa giusta, che avevo

      superato la prova e che stavo diventando più forte.

      La forza l’avevo temprata dentro di me forgiandola con la

      pazienza, come i fabbri battono il ferro e lo modellano fino a

      ottenere spade affilatissime e oggetti di raro pregio. Ma

      anche chi forgia, spreme e si impegna può sbagliare, ed è

      forse questa l’origine di ogni insicurezza e l’anello comune a

      tutta l’umanità: un brivido e un fiato di insicurezza che ci

      spingono a scappare o ad attaccare; a capitolare o a vincere.

      Questa volta avevo vinto, ma il viaggio doveva proseguire

      e altre sfide si sarebbero parate davanti a me. Da una parte

      non vedevo l’ora di misurarmi con esse, ma dall’altra sentivo

      ancora il brivido gelido della paura verso l’ignoto. Ciò

      nonostante proseguii con i miei stivali consumati verso altre

      sfide e altri territori.

      I territori tormentati tipici di una tundra nordica

      sembravano alle spalle, con il loro denso odore di betulla e

      gli alti abeti perseguitati dalla neve invernale. I

      sempreverdi, che prima erano tutti intorno a me, si diradarono

      per lasciare spazio a un misterioso labirinto.

      Mi ritrovai improvvisamente vicino a intricate rovine che

      portavano tanti anni quanti erano gli strati di licheni che le

      coprivano. Erano malandate ma disegnavano ancora i loro

      contorni. Se volevo addentrarmi nel labirinto, dovevo seguire

      la direzione di quelle rovine; pazientemente, con tenacia e

      spirito di sacrificio, dovevo piegare la mia volontà a quella

      del fato. Il fato non doveva essere stato molto generoso

      finora vista la sequenza di sfide che avevano indurito il mio

      spirito e la mia pelle, irrobustendo il mio fisico ma

      affaticandomi terribilmente.

      La fatica era una sensazione che ben conoscevo, un’amica e

      una compagna di tutti i giorni. Era come una donna che non

      mente: bella e terribile allo stesso tempo. Non altrettanto

      seducenti erano le scritte che trovavo sui muri, scritte

      terribili e pentacoli che sembravano tracciati con resti umani

      e sangue.

      Controllando le scritte mi spaventavo sempre di più:

      dicevano di non entrare e di non avventurarmi, di non provare

      quel cammino terribile; dicevano di lasciare i propri desideri

      perché non si sarebbero avverati, perché semplicemente saremmo

      morti.

      Tracce umane, teschi e corpi martoriati non troppo

      distanti da me. Mi sentivo osservata e spiata. Tutto, proprio

      tutto sarebbe potuto accadere in quel momento.

      Da sola attraversavo quel nuovo

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