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scattò lui.

      “Ehi, aspetta. Non c’è bisogno di scaldarsi tanto, stavo solo scherzando.”

      Lui sogghignò e si mise il telefono in tasca. Sospirò e si alzò, a quanto pare non più interessato a restare lì a coccolarla.

      “Ah, allora sei uno di quelli” disse Danielle, in bilico tra lo scherzo e la troppa insistenza. “Uno di quelli che protegge il telefonino come se fosse il suo cazzo.”

      “Lascia perdere” disse lui. “Non mi fissare così.”

      “Io? Martin, credevo che mi avresti spezzato il polso per togliermelo di mano.”

      “Be’, non è mica il tuo cellulare, no? Non ti fidi di me?”

      “Non lo so” disse lei alzando la voce. “Non è che ci frequentiamo da così tanto. Cristo, non c’è bisogno di essere così sulla difensiva.”

      Martin alzò gli occhi al cielo, poi tornò a guardare la TV. Era un gesto sprezzante, che la fece incazzare. Danielle scosse la testa e, facendo del proprio meglio per mantenere un atteggiamento scherzoso, si mise a cavalcioni su di lui. Allungò una mano come puntando alla zip dei suoi pantaloni, poi invece la infilò nella tasca dove aveva messo cellulare. Con l’altra mano iniziò a fargli il solletico sul fianco destro.

      Martin fu colto alla sprovvista, non sapendo bene come reagire. Eppure, nell’istante in cui le dita di lei toccarono il telefonino, fu come se qualcuno avesse schiacciato un interruttore. Le afferrò un braccio e lo tirò verso l’altro con una stretta poderosa. Poi se la tolse di dosso senza lasciarle andare il braccio. Le faceva un male cane, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di sentirla gridare dal dolore. La sua velocità e la sua forza le ricordarono che un tempo praticava la boxe amatoriale.

      “Ehi, cazzo, lasciami il braccio!”

      Lui lo fece, guardandola con espressione stupita. Il suo sguardo le fece capire che non aveva intenzione di essere così violento. Aveva sorpreso persino se stesso, ma era anche arrabbiato; le sopracciglia aggrottate e le spalle che tremavano di rabbia ne erano la prova.

      “Adesso devo andare” disse lui.

      “Sì, buona idea” disse Danielle. “E non disturbarti a richiamarmi se non hai intenzione di scusarti.”

      Lui scosse la testa, ma Danielle non era sicura se fosse per le proprie azioni o se fosse rivolto a lei. Lo osservò andarsene dalla porta, chiudendosela alle spalle con un movimento deciso. Danielle rimase seduta sul divano, guardando verso la porta per parecchi secondi mentre cercava di capire cosa fosse successo di preciso.

      Non vuole scopare con me e salta fuori che ha un temperamento aggressivo, pensò. Quel tipo potrebbe rivelarsi più un problema che altro.

      Naturalmente era sempre stata attratta da quel genere di uomini.

      Si guardò il braccio e vide dei segni rossi nei punti in cui l’aveva afferrata. Era sicura che le sarebbero venuti i lividi. Non sarebbe stata la prima volta che un ragazzo alzava le mani con lei, ma non se lo sarebbe aspettata da Martin.

      Accarezzò l’idea di andargli dietro per capire cosa gli fosse preso. Invece rimase sul divano a guardare il film. Se il passato le aveva insegnato qualcosa, era che non valeva la pena correre dietro agli uomini. Nemmeno a quelli che parevano troppo belli per essere veri.

      Finì di guardare il film da sola e decise di finire lì la serata. Mentre spegneva le luci, ebbe la sensazione di essere osservata, di non essere da sola. Sapeva che era ridicolo, naturalmente, eppure non poté fare a meno di guardare verso la porta d’ingresso, dove il giorno prima (e molte altre volte ancora) la busta era apparsa come dal nulla.

      Rimase sul divano a osservare l’ingresso, quasi aspettandosi che un’altra lettera venisse fatta scivolare al di sotto dell’uscio. Venti minuti più tardi, quando si alzò e iniziò a prepararsi per andare a lavorare, lo fece con tutte le luci della casa accese.

      Lentamente, una paranoia strisciante prese ad agitarsi dentro di lei. Era una sensazione familiare, che era diventata quasi un amico nel corso degli anni, un amico molto intimo da quando avevano iniziato ad arrivare quelle lettere.

      Pensò ai medicinali e si chiese per un momento se stesse succedendo tutto nella sua testa. Tutto quanto. Incluse le lettere.

      C’era qualcosa di reale?

      La sua mente andò automaticamente indietro nel tempo, ricordandole quell’oscurità alla quale credeva di essere sfuggita.

      Stava perdendo di nuovo la testa?

      CAPITOLO SEI

      Chloe sedeva nella sala d’aspetto, guardando la scarsa selezione di letture sul tavolino. In seguito alla morte della madre aveva visto due psicoterapeuti, ma non aveva mai compreso lo scopo di quelle sedute. Adesso invece, all’età di ventisette anni, sapeva perché si trovava lì. Seguendo il consiglio di Green, aveva chiamato lo psicoterapeuta del Bureau per prendere appuntamento e parlare della reazione che aveva avuto il giorno prima di fronte alla scena del crimine. Stava cercando di ricordare gli uffici in cui era stata da bambina, quando la voce di una donna la chiamò dall’altro lato della stanza: “Signorina Fine?”

      Chloe era così assorta nei suoi pensieri che non aveva sentito aprirsi la porta della sala d’attesa. Una donna dall’aspetto gradevole le stava facendo segno con la mano. Chloe si alzò in piedi e fece del proprio meglio per non sentirsi una fallita, mentre seguiva la donna lungo il corridoio verso l’ufficio.

      Ripensò a ciò che le aveva detto Green il giorno prima, mentre prendevano il caffè insieme. Nella sua mente le sue parole erano ancora fresche, anche perché era stato il primo consiglio datole da un agente con molta esperienza, da quando aveva iniziato la sua carriera.

      “Durante il mio primo anno sono stato parecchie volte in analisi. La mia quarta scena del crimine era un omicidio suicidio. Quattro corpi in totale. Uno apparteneva a un bambino di tre anni. Mi ha sconvolto nel profondo. Ecco perché mi sento di poterle dire senza esitazione che… la terapia funziona. Soprattutto se inizia a questo stadio della sua carriera. Ho visto agenti credersi dei duri che non avevano bisogno di aiuto. Non sia uno di quelli, Fine.”

      Perciò, no… Avere bisogno di uno psicoterapeuta non faceva di lei un agente fallito. Anzi, sperava che l’avrebbe resa più forte.

      Entrò nell’ufficio e vide un signore sulla sessantina seduto ad una grande scrivania. Dalla finestra dietro la scrivania si vedeva una piccola siepe con farfalle che vi svolazzavano sopra. Il nome dello psicoterapeuta era Donald Skinner, e praticava quella professione da più di trent’anni. Chloe lo sapeva perché lo aveva cercato su Google prima di decidersi a prendere appuntamento. Skinner era molto calmo e composto; sembrava quasi che la sua presenza si espandesse fino a riempire la stanza quando si alzò per andarle incontro.

      Le fece cenno di sedersi su una poltrona dall’aria confortevole sistemata al centro della stanza.

      “Prego, si metta comoda.” Le disse.

      Chloe si sedette, visibilmente nervosa. Si rendeva conto che probabilmente si stava sforzando troppo per nasconderlo.

      “L’ha mai fatto prima?” domandò Skinner.

      “Quando ero molto più giovane” rispose lei.

      L’uomo annuì mentre prendeva posto in una poltrona identica alla sua, posizionata proprio di fronte a lei. Una volta seduto, accavallò le gambe e intrecciò le mani.

      “Signorina Fine, perché non mi racconta di lei… Di cosa l’ha portata qui, oggi.”

      “Da dove devo partire?” fece lei, a mo’ di battuta.

      “Per ora concentriamoci solo sulla scena del crimine di ieri” rispose Skinner.

      Chloe si prese un momento per riflettere, quindi iniziò a raccontare. Raccontò tutto, aggiungendo persino qualche particolare che riguardava il suo passato, per fargli avere un quadro più

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