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a loro, le tazze piene di caffè si stavano raffreddando.

      Emily fece un lungo e profondo respiro. Sapeva che suo padre aveva sofferto di depressione – aveva trovato la prescrizione dei medicinali tra i suoi averi – e che non era in sé, che il dolore lo costringeva a comportarsi in modo imperdonabile. Non avrebbe dovuto fargliene una colpa, eppure non poteva farne a meno. L’aveva delusa moltissimo. L’aveva lasciata sola col suo dolore. Con sua madre. C’era così tanta rabbia a ribollirle nel cuore, anche se sapeva che non c’erano colpe.

      “Cosa posso fare per sistemare le cose con te, Emily Jane?” disse Roy con le mani giunte in preghiera. “Come posso anche solo cominciare a sistemare il danno che ho causato?”

      “Comincia col riempire i vuoti,” rispose Emily. “Dimmi cos’è successo. Dove sei stato. Che cos’hai fatto per tutti questi anni.”

      Roy sbatté le palpebre, come sorpreso dalle domande di Emily.

      “È stato il non sapere a uccidermi,” spiegò Emily con tristezza. “Se avessi saputo che stavi bene da qualche parte, avrei potuto gestire la cosa. Non hai idea di quanti scenari mi sono immaginata, di quante vite diverse ho immaginato che stessi vivendo. Ho trascorso gli anni non riuscendo a dormire. Era come se la mia testa non riuscisse a smettere di evocare opzioni finché non avessi trovato quella giusta, anche se non c’era modo di arrivarci. Era una missione impossibile e futile, ma non riuscivo a smettere. Perciò è così che puoi aiutarmi. Comincia col dirmi la verità, col dirmi quello che per tutti questi anni non ho saputo. Dove sei stato?”

      Finalmente le lacrime di Roy si calmarono. Tirò su col naso, si asciugò gli occhi con la manica. Poi si schiarì la voce.

      “Ho vissuto tra la Grecia e l’Inghilterra. Mi sono fatto una casa a Falmouth, in Cornovaglia, sulla costa inglese. È un posto bellissimo. Scogliere e un panorama meraviglioso. C’è una fantastica scena artistica.”

      Giustissimo, pensò Emily ricordandosi la sua ossessione per i dipinti di Tori, ricordando che ne aveva appeso uno raffigurante il faro nella casa di New York dove viveva con Patricia, e che Emily si era arrabbiata quando aveva capito quanto fosse stato sfrontato e irrispettoso da parte sua quel gesto.

      “Come hai fatto a permettertelo?” lo sfidò Emily. “La polizia ha detto che non c’è stata attività sui tuoi conti bancari. È stata una delle ragioni che mi hanno fatto pensare che fossi morto.”

      Roy trasalì al sentire quella parola. Emily capì quanto male si sentisse di fronte al dolore che le aveva fatto passare. Ma doveva sentirlo. E lei doveva dirlo. Era l’unico modo che avevano per sperare di andare avanti.

      “Non ho venduto nessuna delle mie antichità, se è quello che pensavi,” cominciò. “Le ho lasciate tutte per te.”

      “Dovrei ringraziarti?” gli chiese amaramente Emily. “Non è che un diamante può risolvere anni di abbandono.”

      Roy annuì tristemente, incassando le sue parole rabbiose. Emily cominciò ad accettare che la stava mettendo al corrente, che non cercava più di giustificare le sue azioni ma che invece ascoltava il dolore che le avevano causato.

      “Hai ragione,” disse piano. “Non volevo sottintendere che potesse essere così.”

      Emily serrò la mascella. “Bene; allora va’ avanti,” disse. “Dimmi cos’è successo dopo che te ne sei andato. Come ti sei mantenuto.”

      “All’inizio vivevo un giorno alla volta,” spiegò Roy. “Tiravo su i soldi facendo tutto quello che potevo. Lavori strani. Sistemavo auto e biciclette. Riparazioni. Ho imparato a fabbricare e sistemare orologi. Lo faccio ancora. Sono un orologiaio. Faccio orologi elaborati con chiavi nascoste e compartimenti segreti.”

      “Ovviamente,” disse, con amarezza, Emily.

      A Roy tornò un’espressione di vergogna.

      “E l’amore?” chiese Emily. “Ti sei sistemato?”

      “Vivo da solo,” rispose triste Roy. “Da quando me ne sono andato. Non volevo causare dolore a nessun altro. Non riuscivo a sopportare di avere gente intorno.”

      Per la prima volta Emily cominciò a provare compassione per suo padre – se lo immaginava solo, a vivere come un eremita. Iniziò ad avere la sensazione di aver lasciato uscire tutto il dolore che doveva, di averlo incolpato abbastanza da essere finalmente in grado di stare a sentire la sua versione. Si sentì ripulire da un’ondata catartica.

      “È per questo che non uso la tecnologia moderna,” proseguì Roy. “In città c’è una cabina telefonica che uso per telefonare, molto raramente. L’ufficio postale del posto mi informa se qualcuno ha risposto al mio annuncio come orologiaio. Quando mi sento abbastanza forte vado alla biblioteca a controllare le email per vedere se mi hai scritto.”

      Emily si bloccò, accigliata. La cosa la sorprese. “Davvero?”

      Roy annuì. “Ti ho lasciato degli indizi, Emily Jane. Ogni volta che tornavo in casa lasciavo una nuova briciola di pane perché tu la trovassi. L’indirizzo email è stato il passo più grande che ho fatto, perché sapevo che non appena lo avessi trovato si sarebbe aperta una linea diretta tra te e me. Ma l’ansia dell’attesa era insopportabile. Quindi mi sono limitato a pochi controlli l’anno. Quando ho ricevuto la tua email ho preso subito un volo per tornare qui.”

      Emily capì allora che era quella la ragione per quei mesi in più di ansia che le aveva fatto patire dopo che era venuta a sapere che era ancora vivo e l’aveva contattato. Non la stava ignorando né evitando – semplicemente non aveva visto l’email.

      “È vero?” gli chiese con voce forzata mentre le lacrime le riempivano gli occhi. “Sei davvero venuto qui non appena hai visto che ti avevo scritto?”

      “Sì,” rispose Roy con la voce che era appena un sospiro. Anche le sue, di lacrime, avevano ripreso a scorrere. “Ho sperato, desiderato, sognato che mi scrivessi. Ho pensato che un giorno saresti tornata qui, quando fossi stata pronta. Ma sapevo anche che saresti stata arrabbiata con me. Volevo che l’iniziativa fosse tua. Volevo che fossi tu a metterti in contatto con me perché non volevo intromettermi nella tua vita. Pensavo che se fossi andata avanti senza di me sarebbe stato meglio lasciare le cose così.”

      “Oh, papà,” gemette Emily.

      Qualcosa, alla fine, uscì dal profondo di Emily. Qualcosa nell’ultima e finale ammissione spezza cuore venuta da suo padre era ciò che aveva sempre avuto bisogno di sapere. Che stava aspettando che lei facesse il primo passo. Non la stava evitando, non si stava nascondendo; le aveva lasciato degli indizi in fede che una volta che lei avesse messo insieme tutti i pezzi avrebbe deciso autonomamente se poteva perdonarlo per poi lasciarlo entrare nella sua vita.

      Emily si alzò in piedi e corse al sofà che aveva di fronte, buttandogli le braccia al collo. Singhiozzò contro la sua spalla, dei singhiozzi profondi che le scossero tutto il corpo. Roy si aggrappò a lei, tremando anche lui dallo sfogo di dolore.

      “Mi dispiace così tanto,” disse soffocando, con la voce smorzata dai capelli di Emily. “Mi dispiace tanto, tantissimo.”

      Rimasero così a lungo, tenendosi l’uno con l’altra, lasciando andare ogni lacrima dovuta, facendo uscire il dolore fino all’ultima goccia. Alla fine il pianto cessò. Tutto si fece silenzio.

      “Hai altre domande?” disse alla fine con calma Roy. “Non ti terrò segreto più niente. Non ti nasconderò nulla.”

      Emily era esausta, svuotata da tutte le emozioni. Il petto di suo padre si sollevava e abbassava a ogni suo profondo respiro. Era così stanca che le pareva di potersi addormentare proprio lì, tra le sue braccia. Però, allo stesso tempo, aveva ancora un milione di domande che le vorticavano nella mente – ma una era più importante delle altre.

      “La notte in cui è morta Charlotte…” cominciò. “La mamma mi ha detto delle cose, ma è solo la sua versione. Cos’è successo?”

      L’abbraccio di Roy si strinse. Emily sapeva

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