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      ***

      Ceres si svegliò al grido di uccelli. Sbatté le palpebre e si mise a sedere, constatando che non erano per niente uccelli. Due creature con il corpo di grossi gatti fluttuavano sopra di lei con ali d’aquila, chiamando con i loro becchi rapaci spalancati. Non diedero alcun segno di volersi avvicinare a lei e si limitarono a volare in cerchio sopra alla barca prima di allontanarsi.

      Ceres li guardò e dato che li stava seguendo con lo sguardo vide il piccolo puntino di un’isola verso la quale si stavano dirigendo all’orizzonte. Più veloce che poté Ceres issò la piccola vela, cercando di cogliere il vento che soffiava perché la spingesse verso quell’isola.

      Il puntino si fece più grande e quelli che le parvero altri scogli apparvero dall’oceano mentre Ceres si avvicinava, ma non erano gli stessi che aveva visto tra la nebbia. Questi erano squadrati, artificiali, ricavati da un marmo iridescente. Alcuni di essi sembravano le guglie di qualche grandioso edificio da tempo sommerso dalle onde.

      Spuntava anche un mezzo arco, così grande che Ceres non poteva immaginare cosa potesse essere passato sotto di esso. Guardò oltre il lato della barca e l’acqua era così trasparente che lei poté scorgere il fondale marino di sotto. Non era molto profondo e Ceres poté vedere i resti di vecchi edifici là sotto. Erano così vicini che Ceres avrebbe potuto nuotare fino a raggiungerli solo trattenendo il fiato. Ma non lo fece, sia per le cose che già aveva visto nell’acqua e anche per quello che le stava davanti.

      Eccola lì. L’isola dove avrebbe ottenuto le risposte di cui aveva bisogno. Dove avrebbe capito il suo potere.

      Dove avrebbe finalmente incontrato sua madre.

      CAPITOLO QUATTRO

      Lucio fece roteare la lama sopra alla spalla, esultando per come luccicava alla fioca luce un istante prima di andare a trafiggere il vecchio che aveva osato metterglisi davanti. Attorno a lui altri paesani morivano per mano dei suoi uomini: quelli che avevano osato opporre resistenza, e abbastanza stupidi da trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

      Sorrideva mentre le grida riecheggiavano attorno a lui. Gli piaceva quando i contadini cercavano di combattere, perché dava ai suoi uomini la scusa di mostrare loro quanto deboli fossero veramente in confronto ai loro superiori. Quanti ne aveva uccisi ormai in assalti come quello? Non si era preoccupato di tenerne il conto. Perché avrebbe dovuto sprecare anche un briciolo di attenzione per una cosa del genere?

      Lucio si guardò attorno mentre i paesani iniziavano a scappare e fece cenno a qualcuno dei suoi uomini che si misero ad inseguirli. Correre era quasi meglio che combattere, perché c’era una sfida nel dare loro la caccia come fossero delle prede.

      “Il vostro cavallo, vostra altezza?” chiese uno degli uomini conducendo lo stallone di Lucio.

      Lucio scosse la testa. “L’arco direi.”

      L’uomo annuì e passò a Lucio un elegante arco ricurvo di frassino bianco misto a corno e decorato d’argento. Mise in posizione una freccia, tirò la corda e scoccò il colpo. In lontananza uno dei contadini in fuga cadde a terra.

      Non ci furono altri combattimenti, ma questo non significava che avessero ancora finito. Non per un po’. Aveva scoperto che i contadini che si nascondevano potevano essere divertenti come quelli da rincorrere e combattere. C’erano così tanti modi diversi di torturare quelli che sembravano avere dell’oro, e molti altri di uccidere coloro che potevano avere delle simpatie per i ribelli. La ruota ardente, la forca, il cappio… quale avrebbe usato oggi?

      Lucio fece cenno a un paio dei suoi uomini di buttare giù le porte a calci. Di tanto in tanto gli piaceva dare fuoco a quelli che si nascondevano, ma le case valevano più dei loro abitanti. Una donna uscì correndo e Lucio la prese, gettandola a caso verso uno dei mercanti di schiavi che avevano iniziato a seguirlo da un po’, come gabbiani dietro a un peschereccio.

      Entrò nel tempio del villaggio. Il sacerdote era già a terra con il naso rotto, mentre gli uomini di Lucio raccoglievano oggetti d’oro e d’argento mettendoli in un sacco. Una donna vestita da sacerdotessa si portò davanti a lui. Lucio notò una ciocca di capelli biondi uscire da sotto il cappuccio e un certo aspetto raffinato che lo fece esitare.

      “Non puoi fare questo,” insistette la donna. “Siamo in un tempio!”

      Lucio la afferrò e le tolse il cappuccio per poterla guardare. Non era bella come Stefania – nessuna donna di basso rango avrebbe mai potuto esserlo – ma lo era abbastanza da poter essere tenuta per un po’. Almeno fino a che non si fosse stufato.

      “Mi manda il vostro re,” disse Lucio. “Non cercare di dirmi cosa non posso fare!”

      Troppe persone avevano tentato di farlo nella sua vita. Avevano cercato di imporgli dei limiti, quando lui invece era la persona dell’Impero sulla quale non avrebbero dovuto esserci limitazioni. Ci avevano provato i suoi genitori, ma un giorno lui sarebbe stato re. Sarebbe stato re, nonostante quello che aveva trovato nella biblioteca quando il vecchio Cosma pensava fosse troppo stupido per capire. Tano avrebbe imparato qual era il suo posto.

      La mano di Lucio si strinse attorno ai capelli della sacerdotessa. Anche Stefania avrebbe capito qual era il suo posto. Come aveva osato sposare Tano a quel modo, come se fosse il principe più desiderabile? No, Lucio avrebbe trovato un modo di sistemare tutto. Avrebbe diviso Tano e Stefania allo stesso modo in cui apriva in due le teste di coloro che gli si mettevano tra i piedi. Avrebbe ottenuto Stefania in sposa, sia perché era di Tano, sia perché sarebbe stata un ottimo decoro per qualcuno del suo rango. Avrebbe goduto di questa cosa, e fino a quel momento la sacerdotessa che aveva catturato sarebbe stata una degna sostituta.

      La spinse verso uno dei suoi uomini perché la sorvegliasse e uscì a vedere quali altri divertimenti ci potessero essere nel villaggio. Quando fu all’esterno vide due dei suoi uomini che legavano uno degli abitanti in fuga a un albero con le braccia allargate.

      “Perché l’avete lasciato in vita?” chiese Lucio.

      Uno di loro sorrise. “Tor qui mi stava raccontando di una cosa che fanno quelli del nord. Lo chiamano l’aquila di sangue.”

      A Lucio piacque quel suono. Stava per chiedere di cosa si trattasse quando udì il grido di una delle vedette che sorvegliava i ribelli. Lucio si girò, ma invece di vedere un’orda di gentaglia in avvicinamento, scorse una singola figura a cavallo che aveva a grandi linee la sua stazza. Lucio riconobbe l’armatura all’istante.

      “Tano,” disse. Schioccò le dita. “Bene, pare che oggi sarà una giornata ancora più interessante di quanto pensassi. Ridatemi il mio arco.”

      ***

      Tano spronò il suo cavallo quando vide Lucio e ciò che stava facendo. Qualsiasi dubbio sospeso riguardo l’abbandonare Stefania a letto si dissolse nel calore della sua rabbia quando vide gli abitanti morti, i mercanti di schiavi, l’uomo legato all’albero.

      Vide Lucio fare un passo e sollevare l’arco. Per un momento Tano non poté credere che l’avrebbe fatto, ma del resto perché no? Lucio aveva già tentato di ucciderlo prima.

      Vide la freccia partire dall’arco e sollevò lo scudo giusto in tempo. La punta colpì il metallo dello scudo prima di cadere a terra. Seguì una seconda freccia, e questa volta gli passò accanto a pochi centimetri dal viso.

      Tano spronò il cavallo a galoppare più veloce mentre una terza freccia lo sfiorava. Vide Lucio e i suoi uomini tuffarsi di lato mentre lui sfrecciava in mezzo a loro. Si girò e sguainò la spada proprio mentre Lucio si rimetteva in piedi.

      “Tano, così veloce. Si direbbe che non vedevi l’ora di vedermi.”

      Tano puntò la spada contro il cuore di Lucio. “Adesso falla finita, Lucio. Non ti permetterò di uccidere altre persone del nostro popolo.”

      “Il nostro popolo?” ribatté Lucio. “Questo è il mio popolo, Tano. E posso farci quello che voglio. Permetti che te lo dimostri.”

      Tano

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